2023

Stefano Peroli

Stefano Peroli e Luca Scarabelli nello spazio

 

 

Sono contento di rivederti Luca, da quanto tempo sei qui? Non ti sei mai mosso? Allora non mi sono mai mosso neanche io. Siamo stati sempre così vicini senza il bisogno di fare alcunché. Per noi artisti è naturale. Siamo qui, un po’ stanchi, avendo visto tutto quello che abbiamo dovuto vedere. Sapresti dirmi dove siamo realmente? Io credo di non averlo mai voluto sapere. Dici l’inferno? l’apocalisse? no, non può essere; il vuoto? un grande vuoto? mi stai dicendo che siamo fermi, con gli arti un po’ irrigiditi dalla stanchezza, semplicemente visibili, ma nel vuoto? otto miliardi di individui nel vuoto? E’ il sogno da cui non sono mai uscito, incontrandoci tante volte. Forse siamo già morti, e con ciò? l’importante è parlare fra di noi. Ora siamo qui, seduti? in piedi? forse stiamo persino correndo, anche se tutto sembra fermo. Il mondo è in pericolo. Perché riesco ad accogliere le tue cose nel mio spazio? forse perché siamo nel vuoto? forse perché tu, già oltre, sei qui e mi vedi?

I tuoi lavori, come sai, mi piacciono moltissimo. La mia attitudine ad abbracciarli fa loro da sostegno. Lo sguardo delle teste che io dipingo arriva fino ai tuoi lavori, toccano la fine con essi, toccano anche ogni possibile inizio. Mi piace come poni nello spazio le tue cose, mi piace il tuo posarle come in uno stato di natura, naturale poesia. Esse si liberano di tutto, persino di noi, ci dimenticano. A volte ho l’incredibile sensazione di vedere nel tuo lavoro qualcosa che mi sta dimenticando, che mi sta ignorando e non sai quanto questo mi inebri. Ogni tuo brandello d’oblio mi riempie la mente. Forse è proprio questa la grazia, la grazia dei tuoi minimi gesti da queste parti della galassia. I gesti sono finiti, tutti, ma il tuo no: è infinito. Alcune tue piccole opere mi fanno volare alla lontanissima “gaiezza” di Picasso, alle prime ore del cubismo sintetico: una pipa, un pezzetto di giornale, aperti e in parete. Stessa gaiezza? nonostante tutto quello che è intercorso nel frattempo? può essere?

Questo sottile filo di ferro bianco e attorcigliato che sporge dal muro, che mi stai indicando, o quel ritaglio di stoffa, forse un pezzo di calzino: se mi accorgessi di loro, nell’aldilà come ora li vedo nell’aldiquà, sarebbero i miei sicuri appigli, forse scogli. Uno sguardo fisso e silenzioso sulle tue cose, nell’inferno che riveste il mondo, fa parte della salvezza. Si potrebbe persino ammettere che il fatto che esistano sia più importante del fatto che vengano viste. Io, Luca, mi impadronisco dei tuoi lavori come ricordi che balenano nell’istante di un pericolo, lasciando cadere tutto, perdendo tutto. Benjamin diceva che nessuna opera d’arte può sembrare del tutto libera e viva senza diventare pura apparenza e cessare di essere opera d’arte. Il nostro stare qui, ora, vedendoti, guardandoti in silenzio, vale più di una mostra, di un’intera esistenza. La proprietà privata (ti ricordi? che schifo!) ci ha resi così ottusi che un oggetto è considerato nostro solo quando esiste per noi come capitale, quando viene da noi usato! Ma ora, vicino e accolto dai tuoi gesti delicati, io sparisco in una mia beatitudine, in un mio essere solo con le tue cose, fuori dallo schifo del mondo.

Leggo: la ragione serve solo all’utile. Ma nei rapporti tra gli uomini deve affermarsi la sfera di ciò che non è utile, che è semplice comunicazione di vita e espressione di vita, senza essere diretta a un fine pratico e a un’azione particolare. Sfera dell’amicizia, del gioco.

Abbiamo ancora un po’ di tempo? La prossima volta che ci incontreremo qui, ancora insieme, ti porterò la tesina con cui mi congedai dall’Accademia di Brera. Sono passati degli anni, ma non importa quanti. E’ una vecchia tesina su un tuo amatissimo artista tedesco, oggi più tuo che mio, te la regalerò. Sono paginette che piacquero molto al mio caro professore di storia dell’arte che oggi non c’è più, non c’è più da svariati anni ormai. E’ una tesi molto breve e tratto dell’artista attraverso una sua unica opera intitolata “Quadro ginocchio con comete”, della quale non ricordo più l’anno, ma tu certamente non eri ancora nato. Il supporto di quell’opera è un cartone da imballaggio aperto e le comete sono semplici gocce di colore, poche, cadute chissà come e da dove. Quel lontano Fluxus è stato davvero un bel flusso, anche se preferisco il pianeta in cui mi tocca vivere oggi. Tu Luca appartieni a quella marea, ma sapendoti abbandonare ancor più semplicemente. Io, al nostro amatissimo Beuys, oggi preferisco i tuoi lavori. In quella lontana tesina, infatti, parlavo di Beuys e ne prendevo già le distanze facendolo soccombere dagli inclementi scatti warholiani. A proposito: Beuys fece mai abiura dalla sua giovinezza hitleriana?

Leggo: dovremmo aver capito che quando un uomo si mette in mostra di fronte a un pubblico, quando un individuo si esprime in parole, in suoni, in scritti, in colori dinanzi al presente e alla posterità, saremo sempre spettatori di una commedia, non si tratterà mai di qualcosa di sano, di serio, di trasparente. Se si vogliono altre cose, la naturalezza, la verità, il limpido e l’autentico, si deve eliminare ogni recitazione. Sono contento di citare Giorgio Colli, la sua “Ragione errabonda”. In questo cielo, la nostra parete, rimangono pochi scogli. Molti tuoi lavori, mio caro amico, giungono fino a lambire i miei arti, risospinti da una brezza che era tanto cara a noi terrestri. Sorridi? sorrido anch’io. Luca, il nostro gioco senza recite è questo. Che sia anche arte? Chissà. Io voglio, Luca, muovermi solo fra le tue cose.


2021

Aurelio Andrighetto 

 

 

Caro Luca,

la tua scultura formata da una scopa tenuta in equilibrio da un rotolo di nastro adesivo (Antagonista, 2021), che flette le setole della scopa, mi ricorda un autoritratto segreto di Giovanni Anselmo: un tondino metallico infisso verticalmente in un cubetto di legno (Senza titolo, 1966). Il suo equilibrio è precario, basta un leggero tocco per fletterlo. Non si tratta di blocchi di legno e tondini di metallo, né di scope e rotoli di nastri adesivi, ma di tensioni, equilibri e forze che agiscono nel mondo degli oggetti così come in quello delle idee. Il mio stesso modo d’intrecciare il discorso sull’arte con la pratica stessa dell’arte e con altre forme del discorso, il mio passare un livello all’altro è uno stato tensivo, uno stare sospeso o, appunto, in equilibrio. La tensione è la forma, una forma da sperimentare infilando il manico della scopa in un rotolo di nastro adesivo, manipolando oggetti e materiali, così come si manipolano codici e linguaggi, immagini e parole. Si tratta dell’intelligenza pratica, una forma di astuzia che è anche quella del linguaggio, che trova nel mito del Nodo Insolubile o di Gordio una sua formidabile espressione.

In questo mito ritroviamo l’impenetrabilità di un sapere logicamente irresolubile perché “i capi delle corregge risultavano introvabili”, e il taglio che li rende visibili (in una diversa versione del mito, lo smontaggio del pernio attorno al quale era avvolto il nodo). Enigmi impenetrabili agli artifici del pensiero logico-dialettico e il gesto che scavalca l’insolubilità del nodo con la stessa intelligenza che lo ha stretto: l’intelligenza pratica (Mḕtis). Il filologo Corrado Bologna sostiene che applicando la propria mḕtis all’azzeramento di quella oscura, ambigua e allusiva del nodo gordiano, Alessandro incorpora entro l’orizzonte logico-dialettico l’intero universo pre-aristotelioco e pre-platonico. In breve, l’intelligenza pratica sembra offrire un modello di conoscenza efficace per affrontare la complessità del nostro presente, che trova nel mito del nodo gordiano una sua radice. Negli stratagemmi e nelle astuzie della sua pratica - tu diresti nello “scivolare” delle cose in una direzione imprevedibile, mentre le manipoli - vi è una forma d’intelligenza, che forse può essere d’aiuto per affrontare il problema posto dall’insolubilità dei nodi, anche quelli che si formano a seguito della manipolazioni, degli scambi e delle rilocazioni, che caratterizzano la pratica corrente dell’arte... artifici, espedienti e stratagemmi dell'intelligenza pratica per intrappolare l'età presente.


2017

Marco Senaldi 

Opera  Sistema Soggetto

mostra Fondazione Bandera per L'arte, Busto Arsizio (VA)

 

…l’arte ci sarà in quanto non ci sarà; 

poiché quel che si troverà sarà sempre il pensiero che è la risoluzione 

della pura soggettività nell’attualità dell’autocoscienza.

Gentile, La filosofia dell’arte

 

 

Di fronte alle opere di Luca Scarabelli si ha sempre la sensazione di non so quale strabismo, o almeno di una sorta di miopia, che però non parte dall’occhio dello spettatore, ma dalla cosa guardata. Al tempo stesso troppo presenti e troppo sfocate, troppo singolari e troppo sdoppiate, le sue opere – che si tratti di sculture, di dipinti, collage, installazioni, interventi musicali, performance o anche partecipazioni a progetti collettivi – corrono sovente il rischio, se prese isolatamente, dell’insignificanza: e lo corrono, si direbbe, consapevoli di farlo. È un rischio, va aggiunto, proprio di una certa poetica postconcettuale, che, avendo malinteso il magistero duchampiano e del concettualismo classico, supponeva di poter esprimere concetti elevatissimi mediante l’ostensione di poveri artefatti empirici, senza sapere così di autocondannarsi per “insufficienza di prove”. Tuttavia, come domanda impunemente il titolo di una sua – al solito elusiva – opera, una sorta di vecchia banana rinsecchita, che si rivela però di nobile bronzo, Da dove guardare una scultura? Ossia: l’osservazione de visu è certo ancora un metodo adeguato per considerare l’opera di Scarabelli? Basta aggirarsi un poco nel labirinto dei suoi testi, delle immagini senza didascalia, delle fanzine (o persino microzine) eleganti, sfuggenti e “intempestive” (la più nota delle quali si intitola appunto “strabismi” ed ha per fine l’ “afferrare con l’occhio eccentrico l’eresia” dell’opera), per ritrovarsi con un ventaglio di carte che si collegano, si intersecano e si rimandano e non lasciano mai nessuna immagine alla deriva, in abbandono.

Come per un filosofo, la cui architettura di pensieri si regge sull’inconfessabile sistema che essi finiscono per edificare, in parte a sua insaputa, così l’impareggiabile molteplicità di opere messe in campo da Scarabelli non solo si sorregge, ma finisce per librarsi, proprio in virtù del “sistema” a cui tutte rimandano e che tutte giustifica. Il cuore di questo sistema, pur collocandosi oggettivamente nel sito web dell’autore (in quanto catalogo esaustivo di tutte le sue opere/operazioni), non si limita certo ad esso, dato che invece parrebbe lui stesso parte del suo “vero sistema” di espressione, che risulta piuttosto intangibile e ogni volta dinamico, metamorfico, imprendibile e “sistematicamente” incompleto. 

Questa incompletezza è certamente parte integrante del funzionamento del sistema: infatti, le opere di Scarabelli non rimandano le une alle altre per assonanza o per genere, perché appaiono sovente diversissime, oppure ostinatamente ripetitive. Esse, invece, si relazionano in virtù di qualcosa che a tutte sembra perennemente mancare, o, per citare ancora uno dei suoi straordinari titoli, costituiscono Nessuna unione di nessuna cosa con nessuna.  È come se, nel “sistema” che dovrebbe chiudere tutta la produzione sotto un determinato sigillo di senso, la protagonista fosse proprio questa discrepanza, o meglio questa “nessunanza”, ovvero l’autorelazionarsi negativo di ciascuna cosa, non con un’altra, ma con se stessa.

Un esempio è Fare il ponte (don’t leave me), 2010, microinstallazione costituita da due sparuti bicchieri di plastica connessi a malapena da uno stuzzicadenti che, nella sua improbabile funzione di collegamento, parla piuttosto di un mancato rapporto. Questo rovesciamento di senso, non può non richiamare a sua volta la tecnica impiegata da Scarabelli per i suoi collage, che infatti non consistono, come nella maggior parte dei casi, nella giustapposizione elaborata tra numerose immagini preesistenti, ma, per così dire, ritagliano un’immagine simile a se stessi al proprio stesso interno, come se si spellassero contro uno sfondo che somiglia loro così tanto da confondersi con la superficie di partenza, pur mettendola in discussione. Di questo genere sono la serie intitolata Distanza (obversione), che appunto non solo inverte il rapporto figura-sfondo, ma lo ribalta una seconda volta nel senso che l’immagine che appare nel buco dello sfondo potrebbe a sua volta essere un disco ritagliato che copre un vuoto. Si tratta di gesti minimamente distorsivi, come il patetico stuzzicadenti che spavaldamente si dà le arie di un autentico “ponte”, i quali però sono capaci di generare un modo totalmente nuovo di affrontare la dimensione visiva.

Per illustrare questo aspetto ci si può rifare, ad esempio, al lavoro video di Janet Cardiff, Alter Banhof Video Walk, 2012, in cui lo spettatore è fornito di un monitor che riproduce esattamente lo spazio in cui si trova in quel momento, ma in un video realizzato ore o giorni prima – vedendo così transitare dei passanti che attualmente non sono lì. Questo straniamento che qui è temporale – dato che il passato non combacia col passato (perché lo vediamo ora, nel presente), e, a causa sua, nemmeno il presente coincide più con se stesso – assume in Scarabelli una valenza spaziale. Il titolo Distanza non sta a indicare la distanza che effettivamente sussiste tra un qui e un là dell’immagine, ma nel fatto che nello stesso qui, convive anche il là, nel vicino spunta il lontano, e viceversa: per cui la distanza vera è meno quella che separa ciascun opposto di quella che separa ognuno dei “posti” da se stesso. Inserita non solo nella propria “serie”, ma nel “sistema” complessivo, un’operazione come Distanza funziona come Ponte, sia pur a rovescio: è il sinonimo di tutte le forme di distanziamento autoriflessivo che le opere di Scarabelli sistematicamente assumono, e con cui si distanziano / si relazionano fra se stesse. Ma il risultato alla lunga, non avviene solo a livello percettivo, ma si colloca a un livello più profondamente speculativo. Per afferrarlo, però, occorre trasferirsi sul piano squisitamente filosofico. Nella sua ormai semidimenticata Filosofia dell’arte, il grande dialettico italiano Giovanni Gentile tocca ripetutamente il tema dell’esistenza di ciò che empiricamente chiamiamo arte e di cui non  riusciamo a cogliere l’essenza. Perché, si domanda Gentile, ogni tentativo di definire l’arte sfuma nel suo opposto?

Questa tela che è l’arte non si può vedere se non fermata in una cornice; e l’arte è nella tela, non è nella cornice. Anzi questa cornice è quella che, trattando l’arte come arte, non è arte, se ne differenzia e vi si oppone. Si chiamerà critica, riflessione sull’arte, filosofia, storia  … [Ma] in simili forme del pensiero l’arte non c’è più … E allora? Quando c’è, non è arte; e quando si potrebbe dire: - Eccola lì, l’arte; - essa non c’è più.  Che significa questo interminabile “additare”, questa “irrequietudine” se non l’intrinseca “dialetticità della forma artistica” che si nega nell’unità “di sé e della sua antitesi”? Quest’inquietudine, alla fine, parla di noi: è lo smarrimento che ci prende quando guardiamo il ciondolare inutile del rotolo di nastro adesivo dentro il copertone di Deriva, 2014, o la gruccia appesa alla cassetta di plastica nera di Salto mortale, 2016, o l’immagine, strappata e nostalgicamente illeggibile, di Nostos, 2014: “cose” di cui non sappiamo più se sono definibili come arte, ma che, non appena facciamo per afferrarle e definirle, ci sfuggono di mano. Quello che allora si distanzia da se stesso non è più il “pezzo”, inteso come oggetto estetico, ma è l’individuo che lo guarda: il pezzo, come “elemento mancante”, non fa che confermare l’esistenza dell’”insieme vuoto” da cui è stato sottratto – cioè noi.

Così, l’arte, da docile creazione oggetti, ideati e realizzati “in vista e in onore” di un soggetto, si trasforma infine in una irresistibile forza in grado di destabilizzare l’identità di quest’ultimo:  [se] l’oggetto è il modo di esistere del soggetto, il soggetto che si stacca dall’oggetto reale, si stacca pure dal soggetto … Il soggetto medesimo non è più lui: poiché era il soggetto di quell’oggetto, e ha spezzato i vincoli che lo tenevano avvinto e facevano di esso quel determinato soggetto.  


2016

Rossella Moratto

mostra Fondazione Bandera per l'Arte, Busto Arsizio (VA)

 

 

L’opera di Luca Scarbelli si muove nell’orizzonte della quotidianità in quella dimensione indefinibile che Marcel Duchamp definì l’infrasottile, spostando l’attenzione sui piccoli eventi al limite dell’esperienza materiale delle cose. Un linguaggio apparentemente semplice e dimesso, fatto di oggetti comuni, di immagini riciclate o, nel caso della pittura, di gesti minimi e leggeri che si confondono con le impronte temporali, un’economia segnica e tecnica che lascia spazio alla sospensione e all’attesa. 

Le opere di Scarabelli sono come frammenti di un racconto aperto, mai finito, votato forse al fallimento e sicuramente al ripensamento, che ritorna sui suoi passi per prendere altre direzioni, sempre alla ricerca di una relazione con il mondo che non è mai data definitivamente. Ci si muove così in un terreno incerto, che attraversa linguaggi e memorie per incontrarsi in un tempo sospeso dove presente e passato si incontrano, dialogando. Lavori recenti richiamano quelli passati in una narrazione cacofonica che procede per salti: un andamento che è affine alle sue recenti sperimentazioni musicali – con Michele Lombardelli come Untitled Noise – che sono una parte non secondaria del suo lavoro, presentata in questa mostra con un live set.

Gli accostamenti di immagini o di oggetti – o di suoni – risultano in parte familiari e in parte estranei rivelando l’aspetto sconosciuto del quotidiano che suscita un sensazioni contrastanti, dal meraviglioso al pertubante, provocando stupore e disagio. Perché l’arte non è semplice interpretazione del reale ma possibilità di vedere le cose con un altro sguardo, oltre le convenzioni e le abitudini: così nei collage quali Istante inatteso (2016) o negli assemblage quali Antifragile  (2017)  o ancora in Monumento (Deja vu) (2011) o ancora Riposizionamento di un paesaggio (2011- 2017) inedita convivenza di una scala con un uccellino tassidermizzato e uno stuzzicadenti, le associazioni trasformano la banalità dell’uso e del consumo in un nuovo ordine simbolico.

In questa personale sono presentati dei lavori recenti, realizzati tra il 2015 e il 2017 con poche eccezioni precedenti. Il titolo è preso dall’omonima serie Gli anni profondi (2016) scatole di cartone aperte il cui contenuto, inaspettato – sfere di marmo, paillette variamente colorate, altre scatole di cartone vuote  –  provoca sentimenti stranianti, facendo ribalzare il concetto di vuoto ed evocando un senso di precarietà che caratterizza l’intera produzione dell’artista e in particolare una serie di recentissimi lavori pittorici – a olio su tela, qui esposti per la prima volta – della serie Tutti i doni (2017) in cui il colore, dipinto a rovescio, traspare sulla tela grezza come un’apparizione. Con un’attitudine surreale e disincantata, Scarabelli suggerisce un altro significato, effimero e momentaneo, all’apparente assurdità dell’esistente.


2016

Rossella Moratto

mostra Museo d'Arte Contemporanea, Lissone

 

 

Non ho mai fatto differenza tra gesti quotidiani e gesti della domenica

Marcel Duchamp

 

Discreto e antispettacolare, Luca Scarabelli lavora sul quotidiano rovistando nel passato e nel presente, prendendo a prestito oggetti per dare un nuovo senso all’ordinario senza alcuna pretesa di verità e di assolutezza. È una pratica fallimentare, come afferma egli stesso, che non aspira mai al compimento e alla perfezione ma all’episodico, al frammentario: precarietà dell’opera e anche della vita, che rende questi lavori partecipi della comune condizione umana. Si tratta sempre di incontri tra elementi che si associano per affinità elettive e formali, a volte evidenti, altre nascoste, come nei collage realizzati con frammenti di riviste raccolte negli anni o nelle installazioni, dove convivono cose di ogni giorno – biciclette, secchi, sedie, calzini – e strane presenze – uccelli tassidermizzati, forse un memento mori? – oggetti smarriti e ritrovati, talvolta legati fra loro con una stringa nera, rinnovato filo di Arianna che ci guida nel labirinto del suo immaginario. E ancora stoffe, fazzoletti, sciarpe o presenze mute quali sfere di marmo o tele che si fanno da sole semplicemente mostrando i segni del tempo stratificati sul supporto o le tracce lasciati dallo strofinamento di una superficie pittorica su un’altra o ancora fotografie che riproducono macchie, trasformate in puro astrattismo. Scarabelli osserva la realtà minima non dando nulla per scontato, soffermandosi sull’infra-ordinario, operando con lievi spostamenti che destabilizzano l’abituale visione delle cose per coglilere l’infrasottile – concetto duchampiano che nomina i fenomeni al limite dell’esperienza materiale, indefinibili se non per esempi – riportando l’attenzione sugli impercettibili microeventi segreti delle cose: «forse i miei lavori fanno in modo che l’arte non sia comunicazione, ma qualcos’altro, una resistenza, un’altra storia della rappresentazione, un attraversamento di linguaggi che cambiano il modo in cui vediamo le cose»

C’è anche un’ironia sottile, a tratti malinconica, nel suo mondo laterale e contrario ma soprattutto un senso di attesa, di sospensione come se ogni lavoro alludesse a qualcosa d’altro, a un altrove che prelude a un prossimo gesto, a una illuminazione imminente, momentanea e fugace, che si concretizzerà in un’altra opera. L’arte è un surplace, nome che nel gergo ciclistico indica lo stare fermi in equilibrio sulle due ruote senza mettere piede a terra, azione in potenza che prelude a una partenza o a uno scatto. Energia concentrata, tensione, eccitazione e concentrazione: è come se le immagini nei collage e, allo stesso modo gli oggetti negli assemblaggi e nelle installazioni, scivolassero gli uni sugli altri fino ad arrestarsi ma conservando nella loro immobilità, un’attività celata, sottile, in potenza. 

È una pratica demistificata che si dà nel suo farsi e si sviluppa in direzioni divergenti, apparentemente centrifughe, sulle quali l’artista ritorna per poi ripartire, dai suoi stessi passi, sempre sparsi. Ed è anche un esercizio abituale, come mangiare, respirare, vestirsi, andare in bicicletta, perché «i giorni dell’arte sono anche i giorni del lavoro, ma di un lavoro che pure esiste in idea e in carne, libero e liberatore». O come dice Scarabelli «un allenamento per buttare al meglio una cosa lì nell'angolo. Esercizi di esitazione, perché il cielo di notte è pieno di punti».


2014

Elio Grazioli

 

Michele Lombardelli e Luca Scarabelli

 

Perché espongono insieme e condividono la presente pubblicazione questi due artisti? Non credo sia per qualche ragione occasionale o perché, come hanno dimostrato abbondamente in una quantità di altre occasioni, entrambi sono portati per le collaborazioni e le comparticipazioni. Non lo credo perché li sento stranamente, nonostante le diversità, molto vicini. Per Scarabelli la collaborazione dev’essere una forma di collage. Come infatti realizza dei collage accostando due immagini con grande disinvoltura, cioè senza complesse composizioni ma spesso proprio per puro accostamento, così accosta il proprio lavoro a quello di un altro. Come nel collage – o,in altro modo, anche con certe opere che sono dei puri montaggi di oggetti – crea una propria opera con l’appaiamento di immagini altrui, così costruisce una mostra con la sua opera avvicinata a quella di un altro. Come i collage spesso risultano dalla riflessione sull’opera di altri artisti, quella riprodotta nelle immagini che preleva, così nelle mostre la sua opera entra in dialogo con quella dell’altro. A volte potremmo pensare che la sua opera è dunque metà di un’opera, per così dire, parte di un insieme, come quando mette una sfera per terra o la fa addirittura portare in giro da qualcuno (nel qual caso la sfera è già la metà di cui la persona o l’azione è l’altra parte: “opere fantasma”, le chiama, anche in questo senso). Per Lombardelli dev’essere per parte sua qualcosa al tempo stesso di più semplice e più complesso, perché ha a che fare insieme, credo, con una certa sintonia di atteggiamento con l’altro e però anche con una differenza – stavo per dire distonia, per restare al rimando musicale – di sensibilità. Lombardelli mi dà l’idea di un uomo ipersensibile, osservatore e introverso. Vede il mondo quando lo disegna o dipinge, lo vede insieme come mondo e come macchia, disegno o colore; poi, quando ha disegnato o dipinto ciò che lo ha colpito, lo riguarda – nel doppio senso del termine – con meraviglia. Questa almeno è la sensazione che ho io stesso davanti alle sue opere, spesso raffinate, come i piccoli quadretti neri, ma mai compiaciute proprio perché non fini a se stesse. Allora penso che Lombardelli guardi a Scarabelli – forse si sono messi insieme perché i loro cognomi finiscono entrambi per elli?! – come a un soggetto di una sua opera, come a una presenza da rielaborare facendola diventare sua.

C’è un suo disegno del 2012-13 in cui si vedono due persone che fanno lo stesso passo per salire su un gradino o una stuoia o qualcosa del genere. Le loro sagome si uniscono quasi a formarne una sola delineata dal loro contorno e si differenziano al tempo stesso, perché una è più lavorata dell’altra; la zona bianca interna forse ne fa apparire una terza, che è ulteriormente diversa dalle due. (Ci viene in mente la porta della galleria Gradiva disegnata da Duchamp: sagoma di due persone che passano la soglia abbracciate. Sono due o una? O tre? O i volti dipinti da Picasso e Braque che contengono al loro interno il profilo, magari, in Braque, nero, come ombra.).

Di fatto il collage e il montaggio di oggetti o forme diverse, che entrambi gli artisti usano in modo privilegiato, è basato su questo principio: la somma, l’insieme è diverso dalle parti; il rapporto, più un innesto che una giustapposizione, è il medium, come si usa dire oggi. Per questo è giusto che determini, che regoli anche l’esposizione e la pubblicazione. Tornando a loro, riprenderei dicendo che per Scarabelli è più una questione etica, per Lombardelli più una estetica. Lo si vede anche dai titoli che danno alle opere. Lombardelli il più delle volte usa “senza titolo”, lasciando lo spettatore solo di fronte all’opera, e lasciando l’opera a se stessa. Tutt’al più è allusivo: “Giunge una voce a qualcuno nel buio”, “Suspense”, “Eterotopia”; dunque buio, sospensione, spazio altro. Quello a cui ci mettono di fronte è appunto un rapporto estetico, non di individuazione-decifrazione-interpretazione, ma di spostamento di percezione e di comprensione: l’arte è un modo altro, non riconducibile né riducibile agli altri modi noti. Anche Scarabelli fa spesso appello al buio ma per rivendicarne l’esplorazione, dalla dimensione del “dietro l’angolo” a quella dell’universo interplanetario, dal buco nella scarpa al buco nero. Quando diciamo che la sua preoccupazione è più etica che estetica, intendiamo che egli è preoccupato della sua posizione, della posizione dell’artista, del modo in cui l’artista può e deve maneggiare i materiali e le nozioni che maneggiano anche gli altri, le discipline, i saperi. Per lui l’arte è un modo di essere più che di conoscere. L’arte è una “complessità indefinibile” e il collage è allora un modo di fare, è il modo dell’attenzione e della discrezione, un “esercizio”, un “abitare”, un “fare il ponte” – questi i suoi titoli. Ora, quello che credo che abbiano di particolare o che comunque a me interessa di questi due artisti, del loro atteggiamento che sto cercando di descrivere, è che non è rivendicativo, non pretende di ergersi a modello ma piuttosto a richiamo di condivisione appunto, di innesto, dicevamo. Lo sguardo incantato di Lombardelli e il tocco discreto di Scarabelli sono modi di essere che appartengono all’arte, nel senso pieno del termine, cioè sono costitutivi dell’arte: l’arte è una modalità visuale – non verbale non concettale, non deduttiva, non lineare – di conoscenza ed è un esercizio di stile che coinvolge tutta la persona, il suo comportamento, il suo stare al mondo. C’è però un altro elemento che va aggiunto per ognuno di loro. Lombardelli, dicevamo, è artista fine e sensibile, la sua sensibilità per noi è legata al suo essere vigile, al non compiacersi, dicevamo, dell’eleganza e delle profondità del buio, della bellezza e dell’abisso del nero, né dell’intelligenza del disegno e del fascino della pittura, ma nel sapere che queste stesse dimensioni hanno, contengono intrinsecamente, sono il luogo stesso, eterotopo appunto, anche del loro lato opposto, del loro rumore – perché qui la musica c’entra molto –, da non intendersi come negativo ma, di nuovo, come altro. Tutto va guardato, “ascoltato”, con uguale, diversa attenzione. Allora si può cogliere la “voce” che ne viene.

Scarabelli da parte sua ci mette il rimando insistito alla circolarità, dalle sfere ai copertoni di bicicletta, ad altri oggetti tondi o arrotolati. La circolarità è essa pure un altro paesaggio, “dialettico” lo definisce il titolo di un’opera del 2007. Non è cioè il cerchio né dell’autoreferenzialità né del narcisismo, ma casomai quello del “surplace”, come lo chiama l’artista prendendo a prestito l’espressione dal ciclismo che pratica con passione, uno stare in equilibrio sul proprio mezzo-medium, un far tutt’uno con esso, nel senso che qui usiamo, cioè in realtà di far tutt’altro, se il gioco di parole non suona fuorviante. Comunque una ricerca di equilibrio, ricerca che si sente molto nel non voler mai esagerare né mettersi in prima fila, nel dosare materiali, oggetti, immagini, perché non si pecchi né di evidenza né di eccesso.

Da questo deriva una scelta di comportamento che può essere scambiato per understatement, che invece è ricerca di finezza e equlibrio, e un attivismo, un darsi da fare con iniziative di ogni tipo, magari modeste e precarie nei mezzi, mostre in luoghi occasionali, piccole pubblicazioni, che invece che essere il trambusto dell’autopromozione sono la ricerca di coloro con cui ci si sente in sintonia e con cui si vuole stare. Solo così, del resto, lo stare insieme, l’innesto, la somma sono maggiori delle parti.


2011

Elio Grazioli

Montaggio infrasottile

 

 

Nell’era della comunicazione digitale due dei fastidi più insopportabili –  per quanto o proprio perché leggeri ma inesorabili al punto da apparire fatalmente inevitabili, incorreggibili – sono i salti nella ricezione, in quella radiofonica per esempio, che non ti fanno perdere granché del discorso o della musica ma interrompono la continuità, turbano l’attenzione, incrinano il tempo, e l’apparizione improvvisa di pixel nelle immagini, per esempio televisive o in videoweb, che hanno lo stesso effetto ma a livello spaziale, della superficie. Sono come smagliature, incrinature, piccoli incidenti di psicopatologia della tecnologia quotidiana, amnesie e lapsus da inconscio tecnologico che sono un po’ il contrario del montaggio – interruzioni non volute – e tuttavia ottengono lo stesso risultato, ma a un altro livello. Avvengono infatti a un livello più interno, intrinseco, come se il montaggio intervenisse da sé, contenuto inevitabilmente nel medium, e improvviso e casuale, senza costruzione.

L’effetto è che senza scostarsi, senza uscire dal flusso, ne percepiamo un’altra dimensione, un’altra storia, come se qualcosa si affacciasse dall’interno attraverso quelle fessure. È l’opposto dei disturbi di trasmissione analogica, derivanti da inserimenti dall’esterno, interferenze, cambiamenti. Qui invece l’immagine o il suono sono diversi senza essere composti, come nel collage e nel montaggio, per accostamenti di materiali diversi, ma appaiono comunque “altri”, non affrontabili com’erano senza interruzioni o pixel. È come un battito di ciglia, uno scuotere gli orecchi... come uno scatto fotografico, come un readymade: lo stesso ma diverso, un momento dopo, un “ritardo”.

Chiedo scusa per il rimando duchampiano, che so che innervosisce alcuni, ma di fatto vorrei proporre l’idea di un montaggio che abbia a che fare non con la sequenza o l’assemblaggio, insomma con gli effetti più collaudati del montaggio stesso – analogia, concatenamento, spaesamento... – ma con qualcos’altro, forse. Mi chiedo in effetti quale possa essere un suo possibile sviluppo attuale. Da quello che vedo nelle mostre e nelle pubblicazioni non trovo esempi del genere, per cui so di rischiare un tentativo puramente teorico, ma andrò per approssimazione – e poi chissà che qualcuno trovi invece esempi o ne tragga spunto per sé.

Qualcosa di simile nell’ambito dell’analogico potrebbe essere stato quell’ambito del cinema cosiddetto sperimentale, che da Andy Warhol a Hollis Frampton sfruttava i salti del cambio di rullini, lo scivolare dei denti nei fori della pellicola, la diversità di sviluppo o i difetti di illuminazione e cose simili in film a inquadratura perlopiù fissa, a segnare proprio il rapporto tra una presunta continuità e i suoi disturbi, che in realtà erano e sono il suo svelamento. Quelle opere siamo stati abituati a inserirle nella concezione metalinguistica dell’arte di quel periodo, evidenziazione del medium, sua decostruzione, mentre quello che vorrei suggerire attraverso il riferimento duchampiano è un’altra dimensione, quella che appunto Duchamp chiamava “infrasottile”. Si tratta, com’è noto, della dimensione della differenza al limite della percezione e tuttavia che allude a un’altra dimensione, che rimanda a un altro modo di vedere – non “retinico”, oh, ma sempre percettivo, sia chiaro – e di pensare. Mi piace pensare che Warhol la pensasse così, in realtà, che stesse a guardarsi le 8 ore del suo Empire o le 24 del suo Four stars perché vedeva altro, come Giacometti che scolpiva per vedere in quell’altro modo. La fotografia ha molto a che fare con questo, è attraverso di essa che è entrata quest’altra dimensione dell’immagine.

Dunque ipotizzerei un montaggio infrasottile, fatto di quei fastidi da cui sono partito, un montaggio interno, che tocca appena la normalità delle cose, il loro solito o corretto modo di presentarsi, che non crea accostamenti, contrasti, opposizioni, ma apre su un’altra visione delle stesse cose, del reale. Voglio dire che questo modo infrasottile al tempo stesso prende le cose alla lettera, invitandoci a guardare – non solo vedere – ciò che altrimenti scansiamo come un disturbo, un incidente, un’inezia, e insieme le mostra in un altro modo, forse il modo in cui appunto realmente sono, o sono pensabili e pensate. Un montaggio come qualcosa che avviene da sé dentro ciò che viene fatto, un intervento del caso, interno, che passerebbe quasi inosservato e che una volta notato svela un’altra dimensione del reale e della visione. Ovvero la dimensione che in realtà è quella del reale e della visione insieme, è quella dell’attenzione, quella di questa strana faccenda che chiamiamo “immagine”, cioè l’idea di fare del reale una riproduzione, materiale o immaginativa che sia.

Il mio di fatto è un invito a guardare diversamente ciò che già esiste, ma per dirlo bisogna ben mettere insieme delle parole o delle immagini, o dei suoni, o altro. Un esempio dunque aiuterebbe. Uno in effetti potrei azzardarlo, probabilmente forzando, ma spero di poco, l’opera dell’artista che chiamo in causa. Mi pare infatti che in alcuni dei recenti collage di Luca Scarabelli, e nel suo atteggiamento nei confronti dell’arte, ci sia qualcosa del genere. Scarabelli in questi casi accosta in maniera semplice e per niente enfatizzata due immagini che trova, o un’immagine e una didascalia, o due copie della stessa immagine disposte o tagliate o stracciate diversamente. Il risultato è al limite del minimo, a volte propriamente quasi indistinguibile, eppure profondo. Mi piace la tranquillità, la discrezione, perfino il lato patetico, malinconico e sognante con cui Scarabelli opera. Lui, adottando una metafora presa dal mondo del ciclismo che ama in modo particolare, parla di “surplace”, lo stare fermo, in equilibrio, sul medium. È un montaggio portato all’estremo, che sembra fiorire su stesso, a cui sembra di assistere invece che di realizzare, che non fa pensare all’accostamento, a un “terzo” che nasca dai due, ma a un’altra dimensione interna al dato, che fa penetrare in profondità piuttosto che muoversi sulla superficie o spiccare il volo per associazioni. Sono convinto che ce ne saranno altri che lavorano con questo spirito, io guardo in questo modo la sfocatura in ambito fotografico, o quelli che vengono chiamati errori, le sovraesposizioni, le sottoesposizioni, l’inquadratura sbagliata, l’immagine colta come soprappensiero. Questo già esiste, la questione, come dicevo all’inizio, è forse ora quella di inventare altri modi seguenti al cambio di medium e al cambio di realtà.


 

2011

Giulia Brivio e Federica Boràgina

Dialogo su Aristotele, un corvo e un artista 

mostra Spazio 12, Barasso (VA)

 

 

Federica: Ma dove siamo?

Giulia: Qui la luce del sole piove dall’alto rotonda e bianca, vedi anche tu come brucia oltre i tagli nella stoffa nera? 

F: Sì, ecco il peso della luce, imponente e trasparente, ferisce la materia lasciando tracce simili a ferite che non sanno rimarginarsi.

È il quinto elemento, la materia eterna, evanescente e fluida, che circonda tutti i corpi esistenti nella loro contingenza, può essere dimostrata ma mai definitivamente e, allo stesso tempo, non può essere negata.

Le leggi scientifiche non possono pretendere di essere necessarie, prescrittive, ma sono al contrario contingenti, cioè si limitano a descrivere, di volta in volta, ciò che accade. 

G: Guarda, è la luce che disegna ogni essere fisico, animato e inanimato.

F: Sì, eccola creare segni visibili sulla carta di Aprire (abitare la dimensione del visibile). Ma quale significato hanno?

Luca Scarabelli li chiama raggi di luce intransitivi, richiamando la grammatica e la caratteristica di quei verbi che non necessitano di reggere un oggetto e sono compiuti da soli.

F: Queste due opere sono le prime pagine di un trattato criptato.

G: Un trattato filosofico, intendi?

F: Sì, un trattato di meta-metafisica: dopo la Fisica, oltre la Metafisica; databile intorno al XXI secolo d.C.; o forse nel I secolo d.C. (dopo Cattelan).

G: Ma dove siamo? 

F: Siamo qui e oltre. Siamo nello spazio che non riusciamo a concretizzare, che ci sembra essere immateriale e invece è reale.

Siamo aldilà delle cose fisiche, incontriamo l’astrazione. Eppure questo cappello appoggiato sul pavimento, Immobile limite del contenente, ci riporta a terra, in una dimensione presente. Il feltro del cappello diventa il limite del corpo contenente in quanto contiguo al contenuto (Aristotele), cioè la sfera di marmo nera. La sfera nera, perfetta nella sua forma e nella sua assenza di colore, è compiuta nel limite di se stessa e con la sua presenza definisce anche questo cappello. Il cappello, reale più che mai, concretizza un aspetto simbolico e immateriale della ricerca di Scarabelli, la matrice concettuale e il suo interesse per Joseph Beuys.

F: A proposito, dov’è Luca?

G: Sta facendo un Esercizio di precisione, ci ha lasciato una fotografia.

E’ bloccato in un’azione di costruzione dell’opera, sta cercando di prendere la mira. Vuole dirci che occorre essere precisi per fare arte, per costruire una cosa e centrare il senso del significato. È sul bordo esterno della costruzione, statuario, concentrato, ma in equilibrio instabile. Così rischia di diventare egli stesso una statua nel mondo dell’arte visto come asettico ambulatorio.

Luca ha lasciato sul camino alcune sue foto di famiglia: Sottozero, un collage di nastro adesivo su legno, con una nuvola da cui appare un occhio curioso e Autoritratto mascherato con bicicletta e corvo, una polaroid in cui il volto è nascosto ma gli indizi per riconoscere l'autore sono più che mai espliciti.

Ci sono frammenti da cui evaporano aloni di storie che sembrano avere a che fare con l’arte...

Il corvo nero riappare nello spazio quando Il nostro giorno è finito (lento ritorno a casa), aggrappato al campanello di una bicicletta nera. Il corvo, memento mori, è appena atterrato e guarda l'istante esatto in cui ci troviamo. Sembrano i simboli di una dottrina occulta, che forse non verrà mai rivelata nemmeno agli adepti.

G: Vuoi fare un altro esercizio? Sfogliamo le pagine di questo criptico trattato.

F: Sì! Ecco l'Esercizio di conservazione, ricordo il lavoro delle presine, Fallen colour field, macchie di colore, che Scarabelli ha posizionato in luoghi diversi, secondo combinazioni cromatiche sempre nuove.

Nella fotografia le presine giacciono a terra, sotto un tavolo e due vasi di fiori, in una decadente villa seicentesca. Sono diventate altro, in un’altra dimensione temporale e spaziale, fissate scompostamente in una natura morta. L'opera si ridefinisce completamente, le presine si sovrappongono, si piegano; sono elementi di una composizione che inizia ad avere un nuovo senso, una nuova storia in cui il tempo non conta più, non influisce più.

G: Lo scorrere stesso del tempo è eterno e costante. Guarda Nostos: lo strappo di una fotografia lasciata solo nei limiti estremi richiama un passato indecifrabile.

Tutto si modifica: continua a esistere sotto una nuova forma e un nuovo significato che gli indizi del trattato possono aiutare a intuire.


2010

Roberto Limonta

 

Scarabelli likes Barthes and Barthes likes him

 

 

“Ritratto di Enrico VIII d’Inghilterra di Holbein

Si è voluto vedere in questo quadro una partita di caccia all’elefante, una carta geografica della Russia, la costellazione della Lira, il ritratto di un papa camuffato da Enrico VIII, una tormenta nel mare dei Sargassi, o quel polpo dorato che vive alle latitudini di Giava e che sotto l’effetto del limone starnutisce dolcemente e soccombe con un piccolo sbuffo. […]                  
Le differenze sono riconducibili a dettagli:  resta il centro che è ORO, il numero SETTE, l’OSTRICA che si può osservare nella zona copricapo-cordone, con la PERLA-testa e il GRIDO generale, assolutamente verde, che scaturisce dall’insieme”

J. CORTAZAR, Storie di cronopios e di famas

 

“Negli anni in cui nasceva e si affermava il fascismo, a Canicattì […] un uomo di spirito fondava un’accademia letteraria sui generis: l’Accademia del Parnaso […] rappresentata da un cane adagiato sulla dicitura – questo cane è un leone – (in latino, naturalmente). L’emblema e il motto pare fossero dovuti al fatto che la tipografia locale disponeva soltanto di un cane.”

L. SCIASCIA, Nero su nero

 

Il titolo fissato per questa seduta dovrebbe essere il problema dello stile. Ma – la donna sarà il mio soggetto.”

J. DERRIDA, Sproni 

 

“Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l’Imitazione di Cristo, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenuti consigli spirituali?”

J. L. BORGES, Finzioni

 

 

Non volle comporre un altro Chisciotte – ciò che è facile – ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes.”. (Borges, ‘Pierre Menard autore del Chisciotte’ in Finzioni). Ritratto del Testo come scappatella, ovvero cosa succede se il soggetto dell’opera, l’autore che marca l’Autorialità, il paladino dell’Accademia e Templare delle note a pié pagina, si defila, se il grido di Nietzsche “una maschera, un’altra maschera, vi prego”, da metafora enfatica della modernità si fa protocollo operativo calandosi dall’empireo delle intuizioni alle mani in pasta della scrittura. Pierre Menard, nell’invenzione fantastica di Borges, voleva fare proprio questo: scrivere il Chisciotte come opera di Menard, riscriverlo lettera per lettera, tradire senza tradurre. “Ogni uomo deve essere capace di ogni idea, e credo che nell’avvenire sarà così.”: una trasfigurazione semantica, con tutta l’eterogenesi dei fini che ne consegue.

Nel suo L’ovvio e l’ottuso Roland Barthes ha scritto pagine illuminanti su Twombly, sulla pop-art e sulla presenza del gesto in pittura, sull’informale, sul corpo e sul ruolo del tempo nell’arte contemporanea. L’idea nasce dalla malìa di quelle pagine (“il corpo inizia ad esistere là dove ripugna”, ad esempio: c’è bisogno di aggiungere altro per descrivere il rapporto tra corpo, gestualità ed estetica del brutto nel contemporaneo?) ed anche dalla convinzione che accostarsi di lato, restando ed insistendo sui margini, consenta la prospettiva migliore per avvicinarsi ad un’opera come quella di Scarabelli, sempre ironicamente defilata, elusiva ed allusiva pur nell’esuberante fertilità concettuale che la scuote sottotraccia; bisognosa, più che di cartigli esplicativi, di un linguaggio che ne mimi il carattere sornione; perché si tratta sempre, alla fine, di “restituire” (e già devono soccorrerci parole altrui) “un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare” (Deleuze). Limite e bordo di quell’azione, queste pagine sono ciò che ne resta nel linguaggio, l’effetto di risonanza concettuale (e valga qui tutto il discorso di Derrida sul parergon e sul ruolo di ciò che, essendo al margine, fa margine). E allora, se Roland Barthes è un autore molto amato da Scarabelli, perché non immaginare che la stima sia reciproca? La tecnica dell’anacronismo deliberato, suggerita da Borges, fa de L’ovvio e l’ottuso un commento puntuale alla sua opera. Roland Barthes lettore di Luca Scarabelli, quindi.

 

“Ci sono pitture eccitate, possessive, dogmatiche; esse impongono il prodotto, gli conferiscono la tirannia di un concetto o la violenza di un desiderio. La sua arte non vuole cogliere nulla; si mantiene, fluttua, va alla deriva tra il desiderio – che, sottilmente, anima la mano - e l’educazione che lo congeda.”  

(‘Non multa sed multum’

 

Scritte per Twombly, queste parole evocano il vocabolario estetico del secondo dopoguerra che qui viene costruendosi: il tema del desiderio e la sua dialettica con le forme della tradizione culturale, l’insistita presenza del corpo e della gestualità, l’idea taoista di un’arte che “non vuole cogliere nulla”, e infatti poco dopo verrà il richiamo alle influenze del pensiero Zen). Scritte per Scarabelli, invece, suonerebbero così:

 

“Ci sono pitture eccitate, possessive, dogmatiche; esse impongono il prodotto, gli conferiscono la tirannia di un concetto o la violenza di un desiderio. La sua arte non vuole cogliere nulla; si mantiene, fluttua, va alla deriva tra il desiderio – che, sottilmente, anima la mano - e l’educazione che lo congeda.”  

(‘Non multa sed multum’)

 

Il richiamo, subito in apertura, a quelle “pitture eccitate, possessive” evoca, di converso, la discrezione e i movimenti impercettibili dell’arte di Scarabelli. A chi conosce la densità teoretica dei suoi lavori non potrà sfuggire la pertinenza di quel richiamo, apparentemente incongruo qui nella sua criticità, alla “tirannia del concetto”: perché il concetto messo in forma da Scarabelli non è mai invadente e preferisce segnare con garbo la propria presenza, senza l’arroganza di chi ha preso a pretesto la profezia hegeliana sulla morte dell’arte per ridurre la forma a serva sciocca dell’idea, facendo di ogni opera il manifesto ossessivo di una rivoluzione. Il desiderio, come fuoco che cova sotto le ceneri, non diserta i suoi lavori ma li innerva (“sottilmente”, avverbio perfettamente scarabelliano) mostrandosi chetato, piegato ad una lucida e serena consapevolezza di sè. La realtà lampeggia (ma a lume di candela), ci indica (meglio, ci sussurra) la direzione verso la quale dirigerci, oltre gli scogli del retinico che trasforma tutto in immagine, “rappresentazioni dell’immaginazione, che danno a pensare molto, senza però che un qualunque pensiero o concetto possa essere loro adeguato, e per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili” (Kant, Critica del giudizio).  E’ un parlare sottecchi, un moto leggero che dà parola ai silenzi, ai limiti e alle cornici, ai fogli bianchi e alle zone decentrate, alle allusioni e alle ombre del linguaggio, tra il margine e il non-detto, le assenze e il fantasma, la periferia senza centro; è la volontà di cancellare l’opera come immagine, attivando le piccole forze disperse tra le cose, come si legge in quell’appunto di Duchamp: ““Trasformatore destinato a utilizzare le piccole energie sprecate come: l’eccesso di pressione su di un pulsante elettrico; l’esalazione del fumo del tabacco; la crescita dei capelli, dei peli e delle unghie; la caduta dell’urina e delle feci; [etc…]” (Duchamp, Scritti). Epifanie minime, energie discrete, “infrasottili” appunto, per usare la terminologia duchampiana; interstizi, spigoli del reale nei quali la polvere del senso, depositandosi, prolifera in una curiosa fauna di forme.

 Il fulcro del suo lavoro è un dispositivo concettuale in movimento (un’arte che “fluttua, va alla deriva”) che si articola, più che come museo di immagini, secondo le tappe di un percorso di educazione al vedere, un diario che raccoglie la cronaca estetica del nostro tempo: forse per questo le sue opere lasciano sempre l’impressione di un moto frenetico, traccie di strani animaletti vispi, sedimentazioni di un pensiero irrequieto. Traccie, certo, ma autoreferenziali; autoriferite ad un sé che non è il tutto del percorso compiuto ma l’apertura indefinita del rimando nella forma solo apparentemente parziale della traccia. Simulacri di non-senso, si defilano sfuggenti e sembrano prendersi gioco di noi appena giriamo loro le spalle.

 

“L’artista è per definizione un operatore di gesti: vuole e non vuole nello stesso tempo produrre un effetto” (‘Non multa sed multum’)

 

La gestualità del dipingere trasposta, e non più nascosta, sulla tela; l’irruzione del tempo nell’opera che si mostra come processo del proprio farsi; la critica implicita alla forma assoluta che assume l’opera intesa tradizionalmente come prodotto finito: Pollock insomma (anche se le pagine sono dedicate a Twombly), e un certo scardinamento del rapporto gesto/oggetto nell’arte contemporanea a partire dalle sperimentazioni dell’informale. Barthes sta aggiornando, da par suo, le pagine del manuale di storia dell’arte. Anche qui, rileggiamo queste parole col senno di poi:

 

“L’artista è per definizione un operatore di gesti: vuole e non vuole nello stesso tempo produrre un effetto” (‘Non multa sed multum’)

 

Dalla prospettiva di Scarabelli il gesto si declina naturalmente nei termini del situazionismo: evoca Debord e non Pollock, Beuys più che Kline. “Operatore di gesti” è peraltro una definizione così calzante al senso del lavoro di Scarabelli, teso a fare dell’opera l’asse di una rete di relazioni personali dove il dialogo, nella forma diretta della collaborazione o in quella mediata del riferimento culturale, si offre come integrato nel senso estetico dell’opera. Un’autentica pittura sociale, per plagiare la celebre definizione di Beuys; questo è l’“effetto” che si vuole (“e non vuole”: l’oscillazione dell’espressione anche qui è interessante, nell’ambiguità di un’intenzione che rimane sospesa, produttiva in quanto dilazionata, non risolta ma imbastita in un tessuto di suggestioni) produrre: “L’opera sembra essere coniugata al passato e al futuro e mai veramente al presente; si direbbe che del tratto non vi sia mai altro se non il ricordo o l’annuncio: sulla carta – a causa della carta – il tempo è perennemente incerto.”. Una fuga, nel senso musicale del termine, non per sfuggire ma per farsi inseguire: la lepre cui spiegare l’arte non è ancora morta. 

 

“Indipendentemente dai mutamenti della pittura, dal supporto o dalla cornice, il problema è sempre lo stesso: che cosa accade lì?”  (‘Saggezza dell’arte’)

 

La parte decisiva è “che” succede qualcosa, che l’opera fa succedere qualcosa: “quella macchia mi pare dapprima frettolosa, fatta male, senza senso: non la capisco. Ma essa lavora, a mia insaputa, in me; dopo che ho lasciato la tela,ritorna, sotto la forma di ricordo, e di ricordo tenace: tutto cambia, e la tela mi rende, retrospettivamente, felice” (Saggezza dell’arte). C’è sempre in Scarabelli una sorta di dilazione funzionale, come un ritardo calcolato, un differire irrisolto quasi che il colpo fosse eternamente trattenuto. Ma, va detto, non ci si annoia mai: succede sempre qualcosa, con i suoi lavori, ed è questo, più che ciò che accade, è il succedere in sè, il venire allo scoperto (evento come e-vento, ereignis heideggeriano, forse), ciò che conta: succede che succede qualcosa, ed è già qualcosa. E’ ciò che si nota scorrendo i titoli dei suoi lavori: Fare il ponte (la condizione dell’abitare), Dietro l'angolo (La misura della scultura al buio e di schiena), Autoritratto come ciclista cosmonauta, Il digiuno degli occhi (l’abito continua ad aumentare la propria influenza sui sensi), Tutto ciò avvenne in un attimo: le fate sono assai svelte nelle loro faccende,  Il nostro giorno è finito (lento ritorno a casa) ed altri. Mentre Barthes si chiede ancora, meditativo, “la pittura è un linguaggio?”, Scarabelli ha già allungato le mani nelle tasche del linguaggio, sperimentando le infinite risorse della parola: furti con destrezza, i suoi titoli sono sempre parte integrante del lavoro, in funzione di contrapposizione paradossale o di patafisica esplicazione; spesso, a suo dire, ne sono la parte migliore.

Il suo gioco è mescolare le carte con lo spessore concettuale che satura lo spazio tra gli oggetti, usando il vuoto come catalizzatore per esplorare le forme possibili dell’intreccio tra le cose, in linea con i dialoghi tra oggetti di Wurm. La definirei un’arte di accenti: Scarabelli semina oggetti, suoni, parole come accenti sparsi che invitano a ricostruire il testo che quelle virgole segnalano, articolano, spargono; il tutto con il comune denominatore della riduzione al minimo di interventi manuali, quasi a lasciare che il senso si depositi da solo, per fermentazione naturale. Centrini, fogli bianchi, cucchiai, un tavolo, bicchieri di vetro, brandelli di feltro, video, ritagli di giornale, una freccietta: quasi punti geometrici, privi di estensione, che aspirano a sublimarsi nell’eco lontana di sé stessi.

 

“Ambigua perché letterale e metaforica, è spostata”
( ‘Non multa sed multum’)

 

L’opera è metaforica perché letterale: le calze arrotolate di Passi sparsi, uno dei lavori più importanti di Scarabelli, sono calze e come tali vanno guardate. Ma la calza è metaforica, e non nella direzione del simbolo, come metà sensibile di un’intuizione concettuale, ma nel senso etimologico della metafora come spostamento e movimento oltre, al di là. Le calze non vanno intese metaforicamente ma come metafora, non indicano uno spostamento ma lo sono, perché lo spostamento è il loro significato, come concrezione e deposito di un tessuto esistenziale. Lo slittamento non è nell’intenzionalità artistica ma nei fatti, è un fatto che l’opera non indica ma mostra, espone, è. Le calze sono grumi neri di colore ma il loro senso è un poco più in là, nell’essere metonimia dei passi compiuti; e, di converso e al contempo, questa loro semantica metaforica slitta verso il lato puramente formale dell’immagine, l’agglomerato cromatico e materico che l’opera, anche, è. Tutto è dis-locato, fuori posto, così che ci scopriamo a chiedere: quale posto, e cos’è un posto? 

Indicare, dirigere, mostrare, additare: questi verbi deittici sono il vocabolario estetico di Scarabelli, che nell’atmosfera spessa della saturazione del reale scarnifica l’oggetto facendone gesto, segnale, direzione e movimento. Sospetto di sapere quale sia il suo sogno: un’opera fatta di pure intenzioni, di pieghe dello sguardo e di invenzioni linguistiche, una creatura di distanza e differenza, non-detta. La fessura impercettibile tra due muri o il ripetersi di una vocale in un testo, il tempo di un’esitazione e, perché no, l’apostrofo rosa tra due parole: aspetta solo, docile, di essere trovata. 

 

 

Addenda

 Scarabelli likes Barthes/Patch 2010/Download 

 

 

“Giovane che guarda”,  2009

 

L’immagine che emerge dal fondo nero, strappata con la consueta negligenza dal catalogo di una mostra sui Mari del Sud al Museo di storia naturale di Parigi, è quella di una scultura fallomorfa, una sorta di idolo polinesiano che è poi il ritratto di un uomo. Ieratico, ma anche sornione, quasi irridente in quei tagli profondi che servivano a scavare la forma del viso ma che, all’occhio contemporaneo che ha conosciuto il dadaismo, prendono l’aspetto di un sorriso carico di ironia. Trascinandoci sulla scena di un spettacolo di cui ci illudevamo d’esser solo spettatori, l’immagine ci costringe a prendere atto del fatto che lo sguardo, in un scambio di ruoli en abyme, è un territorio dove le frontiere dell’attivo e del passivo si confondono, come scriveva Roland Barthes. Io vedo non solo lo sguardo del giovane ma anche me stesso in quanto oggetto e soggetto di sguardi, mi scopro nella polarità instabile di ruoli costitutiva dell’atto del guardare.

La didascalia è quella del Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini, vampirizzata dall’art magazine Mousse, alla quale si sovrappone l’immagine della scultura oceanica. Lo strappo dalla rivista, anche grazie alla sciatteria così poco “artistica” dell’esecuzione, recide il legame del volto dalla storia dell’arte, lo strappa alla reclusione di immagine culturale per reimmetterlo nel flusso dell’esistenza, sul piano di chi vede, soffre, desidera; riportato, nonostante l’aspetto totemico, alla propria origine corporale di giovane che guarda, che fissa noi, e che nel guardare non cerca il distacco della contemplazione estetica ma uno sguardo che risponda al proprio appello. Celata dietro l’astrazione spinta della forma (una delle tante, impensabili maschere della vita) si nasconde pur sempre una faccia che era in carne ed ossa e che torna ad osservarci, resuscitata dalla propria alienazione simbolica: l’idea che l’immagine sia tale solo se sa prendere la forma di evento,  se sa mantenersi esperienza di vita com’è il guardarsi l’un l’altro, questa l’intuizione etica (nel senso di un’etica dell’estetico) cui il gesto di Scarabelli dà forma, ennesima tappa del suo percorso di educazione dello sguardo. Sguardo che ha, che è una durata: una frazione di secondo, qualche minuto al massimo, tutto un vocabolario di frammenti, attimi ed istanti. Lo sguardo è finito, e porlo nelle pupille sempre aperte di un’immagine significa forse sottrarlo alla propria natura, ma anche, proiettandolo in una durata infinita, distillarne l’essenza attraverso una lenta e costante decantazione del senso. 

 L’inversione del rapporto tra opera e spettatore nella dialettica dello sguardo, che è il senso dell’opera di Paolini, con Scarabelli si ramifica in una vertiginosa deriva dove la logica del guardare si fa ambigua e labirintica. Massimo della proliferazione di significati con il grado minimo del gesto (la semplice giustapposizione di immagine e titolo, dove, come di consueto, il verbale fa da volano all’immagine): il giovane che osservava Lorenzo Lotto è diventato lo sguardo di una maschera arcaica che osserva gli uomini del proprio tempo (e sarebbe interessante chiedersi che sguardo andavano cercando, ponendosi di fronte un volto come quello) ma anche noi, e nei nostri occhi l’immagine del giovane polinesiano si sovrappone a quella del giovane di Paolini, che fissa gli occhi su Lotto ma anche su Paolini stesso, su di noi e su Scarabelli, il cui sguardo, di nuovo, carico di questa “densità ottica”, si rifrange sul nostro e riparte prendendo slancio, una sorta di afflato semantico, da questa infinita velatura di sguardi; dipinta tono su tono, a dimostrare che anche i simboli sanno guardare.

 

 

 

 

“Il nostro giorno è finito (lento ritorno a casa)”, 2010

 

Posto che il soggetto dell’installazione è la morte, la morte, si sa, non va mai presa di petto e, nel caso di Scarabelli, neanche presa troppo sul serio. Non si può avere esperienza della morte, insegnava Epicuro, perché la morte, quella vera, è sempre la nostra morte, e può essere esperienza solo per gli altri che possono obiettivarla distaccandosene, mentre noi crepiamo e basta. Su questa impossibilità Duchamp giocò l’ultima cartuccia della sua inesauribile ironia, quando volle che sulla propria tomba fosse inciso: “D’altronde, sono sempre gli altri che muoiono”. Rimangono i discorsi a margine, i commenti apofatici che non dicendo dicono, i parerga e i paralipomena, gli in scolio, le digressioni e le variazioni sul tema, sperando che qualcosa rimanga tra le maglie della rete, aiutandoci a dipanare il groviglio del senso attraverso questo vagabondaggio ai confini topografici dell’opera.

Nord-est. “Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere;la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo” (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto). La morte in aestheticis ha l’aspetto di una semplificazione cromatica: è il colore a farsi segno della vita ed è dai colori che gli oggetti dell’installazione si tengono lontani, in un’astrazione che riconduce la loro fisicità ai suoi elementi essenziali, bianco e nero, al più qualche nuances di grigio. La composizione gioca su questi toni, un bianco e nero che si produce per la risonanza emotiva di quel corvo che si stende sui modi e sui tempi del nostro percepire mentre camminando esploriamo il perimetro dell’installazione; per l’idea del ritorno e il sentimento che vi si lega, per la curva malinconica di quella ruota che si inclina, che si volge indietro portando con sé l’evocazione della strada che prosegue oltre e nonostante noi. Tono su tono, velatura su velatura, la malinconia stempera i colori come un tramonto e, virando la realtà verso l’impossibilità dell’acromia, ne mette tra parentesi la contingenza materica portando in primo piano il suo porsi ed imporsi come immagine e fenomenologia di un’esperienza tutta interiore, oltre la narrazione aneddotica. Certo, poi in Scarabelli la concettualità spinta è sempre bilanciata dalla leggerezza dell’autoironia, ed ecco allora la bicicletta e la scoperta che la fine, alla fine, può essere anche solo il ritorno a casa dopo una pedalata, dove la polvere che ci aspetta non è quella dalla quale proveniamo e alla quale torneremo, ma quella che una doccia basta a lavar via.  

Ovest. Da Poe a Van Gogh, il corvo nero è un ricorrente simbolo della morte. Animale creato dal diavolo, dice la tradizione, al servizio di streghe e stregoni insieme a cani (sempre neri), serpenti e civette. Immagine di una certa fatalità incombente, della morte che viene più che dell’idea archetipica di morte; della morte dinamica e temporale, per così dire. Come in Hegel la nottola, qui il corvo non è simbolo di qualcosa ma indice e testimonianza visibile di un’esperienza mentale, di una morte evocata ma non detta, vagheggiata e allusa più che presenza reale; un memento mori che non vaticina profezie nefaste ma pone l’accento, come un richiamo garbato, sul senso della fine e sul sentimento di ciò che va a finire, dalla vita ad un’escursione in bici. La prosaicità della bicicletta, poi, in contrasto con la sostenutezza del rimando culturale alto, riconduce la serietà ad una più distaccata seriosità, sostituendo apparati teratologici ben più inquietanti (dalla barca di Caronte alla falce del tristo mietitore) e mutando il corvo da psicopompo a ciclopompo

Sud-est.  Corvo nero su bicicletta nera, mi viene da pensare, come Quadrato nero e poi Quadrato bianco su fondo bianco di Malevich. Come se il nero stillasse dal corvo sulla bicicletta, o come se corvo e bicicletta fossero distinti quanto a forma ma uniti nel colore, inteso come tonalità affettiva. Forme di lontananza, entrambe.

Sud. Dov’è il punctum, qui? Barthes, com’è noto, definisce punctum, in fotografia, il centro d’attrazione dell’immagine (che non coincide sempre con il centro strutturale della forma), dove nasce la sua fascinazione. Per  me il punctum  dell’installazione non è il corvo tassidermizzato, la cui sagoma sgomita, da ogni prospettiva, per attirare l’attenzione, ma il punto d’intersezione fra la canna della bicicletta e la ruota che sterza; quello mi sembra il punto radiale da cui si espande il senso dell’opera come per irraggiamento, stingendo il suo nero sulla ruota e sul manubrio, prolungandosi nella protesi organica del corvo, che assume quasi i tratti di uno strano animale biomeccanico, mutante. E’ li che cade l’occhio, come se, fuor di metafora, una gravità dell’estetico lo attirasse verso quel fondo. Il punctum è nell’incrocio tra due direzioni, la canna nera che segnala il non oltre del tragitto e la ruota inclinata nel movimento di ritorno, vertice del viaggio come punto d’arrivo e al contempo principio del ritorno: è il punto di svolta, non solo stradale ma anche concettuale,  perché è lì che tutto si fa immagine e si genera il senso, è lì che accade l’opera, rispetto alla quale il corvo ha la funzione di un attributo (come le spade nelle sepolture dei cavalieri medievali, anch’esse collocate sulla sinistra), di uno sviluppo del tema. 

Nord-ovest. Il corvo non è mostrato in volo, ma artigliato al campanello della bicicletta, come se ne fosse una protesi, un’escrescenza necessaria, quasi l’aprirsi di un lato organico e viscerale che contrasta con il meccanismo rassicurante della bicicletta e delle sue ruote ben oliate e ci ricorda la nostra appartenenza alla fragilità degli esseri naturali. Ha un senso, questa posizione, una necessità? Tento di non cedere alla metaforizzazione diretta (se il corvo è simbolo della morte e il campanello è un richiamo, il corvo sul campanello è la morte che ci chiama: le vie della banalità sono infinite), per non perdere l’opera sull’altare del concetto, e cerco, tra i sensi possibili, quello che mi consenta di tenere insieme idea ed immagine, logica e forma, cultura e scultura, di salvare l’immagine come immagine, insomma (“il quadro è finito quando ha cancellato l’idea”, diceva Braque). Collocare il corvo sul corpo della bicicletta avrebbe richiamato visivamente la sensazione di un accompagnamento nel tragitto, da animaletto domestico, l’idea di una durata temporale prolungata e di una frequentazione, per così dire, quotidiana. La posizione sul campanello, fenomenologicamente, mi sembra cercare una qualche forma di distanza, segnalare il momento “puntuale” della presenza del corvo come soluzione di continuità, quasi punto di rottura e di metamorfosi, in cui il tragitto interiore si coagula in una forma visibile. Il corvo, con tutto il suo carico metaforico, non vola; non ha bisogno di volare perché non è li per accompagnare il ritorno (lento, peraltro). Il corvo è l’esperienza mentale del ritorno: il corvo è il ritorno.

 


2010

Giulia Brivio

Millimetri sensazioni di cose minime

mostra Casabianca, Zona Pedrosa (BO)

 

 

La capacità di Luca Scarabelli di creare nell'ambiente quotidiano quel lieve scostamento della realtà che la rende intellettualmente piena di fascino ed emotivamente instabile, è quasi unica, solo sua. Ha imparato nell'isolamento del suo studio (a Mozzate in provincia di Como) la compostezza, l'elusione dell'eccesso spettacolare che le mode apprezzano; si è abituato a non distrarsi dal lavoro, a vivere per quello. Anche se oggi sembra difficile pensarlo, l'artista è colui che fa arte, che studia il processo con cui realizzare il proprio ideale artistico, che ha qualcosa da comunicare, che ha un modo diverso di vedere il mondo, non solo feste a cui partecipare per farsi notare. A Casabianca, Scarabelli porta alcune piastrelle del pavimento di questo suo studio, scelte per accompagnare l'idea di un possibile autoritratto, per una mostra che nascerà nel momento in cui l'artista varcherà la soglia di casa. E’ un progetto in divenire, si formerà strada facendo e non sarà propriamente progettato, sovvertendo così le pratiche tipiche della cultura occidentale che si fondano sulla riflessione prima dell'azione.

Tornando allo studio, è il simbolo del luogo dove creare, sperimentare, che è alla deriva, come dice Scarabelli: “Lo porto a Casabianca metaforicamente, perché nel mio non ci viene mai nessuno. Le piastrelle sono la testimonianza di una difficoltà, hanno dei motivi decorativi che sono la sintesi opposta del mio lavoro, la decorazione è la cosa più distante che c'è da tutto quello che ho fatto, per quello sta sotto i piedi”. In quello studio, che ho visitato, sul suo grande tavolo da lavoro sono appoggiate le immagine che compongono i suoi collage: autobiografici, extraterrestri, nostalgici, fatti di cielo e di fiori, strappati da riviste d'arte. Sono enigmi in serie che vanno osservati lentamente. In un angolo ci sono mille pallini di carta, come coriandoli, ogni tanto incollati su un foglio bianco. Il discorso sulla pittura portato avanti da Scarabelli si traduce in grandi macchie di colore senza forma e in oggetti concreti come piccole presine fatte a mano o enormi collane di legno, macchie di colore sparse secondo il principio della casualità. La pittura non è figurazione, ma condensazione di luce, il suo elemento primario. Riesce a dirlo anche con una serie di disegni “bianco su bianco”, in cui l’immagine è fatta di materia luccicante ( glitter e colla vinavil) che compare solo quando toccata dalla luce.

Mentre mi guardo intorno, ma anche mentre in macchina torno verso Milano, con la campagna che sta scomparendo nella città, capisco la curiosità per il paesaggio, visto spesso in sella alla bicicletta: è espressa da fotografie scattate per sbaglio, con la coda dell’occhio, che svelano paesaggi transitori, che non esistono o che esistono solo contagiati dall’errore di una frazione di secondo, i Paesaggi malati. Il mondo che viene rappresentato, anche in semplici fogli di cartone piegati, come Luogo in pausa (corrispondenze), è un mondo triste, solitario, melanconico, retrò (con quella bellezza dello scorrere del tempo sulla carta scoperta molti anni prima che diventasse così di moda, come oggi): cosmonauti russi anni sessanta, vecchie riviste turistiche, polaroid...

I colori e i materiali poveri di Scarabelli sono il ricordo di artisti e movimenti che sicuramente ha amato, con passione e ironia. Pensando a come annota sui suoi diari “Questo l’ha già fatto…” ogni volta che pensa ad un lavoro nuovo. Tra i paesaggi naturali, che siano terresti o lunari, la forza di gravità si fa sentire. Scarabelli si ritrae, proiettandosi idealmente nelle figure di altri personaggi presi a prestito dal mondo dell’arte o della scienza, senza poggiare i piedi al suolo, tenuto in equilibrio da perni, persone, assi di legno... così come per i personaggi nei collage, il sostegno è un elemento fondamentale, il presupposto del coinvolgimento dell'altro.

Il sostegno è al fare, all'idea, al corpo, bloccato nell'attimo appena precedente l'azione, come l'istante prima di spingere un pulsante che da l'avvio a un accadimento. A questo possono servire gli esercizi di gravitazione, come scrive l'artista: “La forza di gravità è quella che permette al collage di farsi. Sono da una parte la risposta a una condizione di stallo, fisica, morale, relazionale, in primis personale da autoritrarre”.

La parola scritta è un altro suo dono, un dono silenzioso. Come la sua pratica sviluppata sottovoce, in surplace. Una parola che a volte descrive per evocazione, altre spiega con chiarezza e racconta le opere d’arte di oggi e di ieri con una conoscenza non comune. Una parola che titola i suoi lavori aprendoli a numerose interpretazioni. Nell'autoritratto si proietta, inevitabilmente, anche quello che si vorrebbe essere, e mi accorgo che è proprio così quando Scarabelli mi spiega ciò che avrebbe voluto portare a Casabianca e che probabilmente rimarrà solo un progetto, come quello di presentare una pietra tombale o un monumento funebre con al posto del cavallo (che lo proietterebbe nella storia, in un passato “continuo”) una bici (!), che gli farebbe rivivere la propria vita. Oppure quello di disporre sopra un grande tavolo dei vasi di vetro con dei fiori lasciati ad appassire e deperire, calle, calendule, gigli, rose bianche... fiori di campo, alla parete un piccolo collage con le galassie che si allontanano e l'immagine dell’opera (non l’opera) dell“autoritratto come ciclista cosmonauta” in una grande cornice con appoggiata sopra una gerbera rossa. Ma non lo farà.


2010

Alessandro Castiglioni

Il nostro giorno è finito

 

Se, come sottolinea Jean-Luc Nancy, effettivamente ciò che l’arte oggi è in grado di mostrare è “una possibilità di senso, o meglio una circolazione di senso[…] per la quale il mondo è un insieme di significabilità, cioè di possibilità di senso: non già una totalità di significati stabiliti, ma di possibilità di significato”, allora l’opera di Luca Scarabelli ne presenta una declinazione davvero peculiare, innanzitutto per il suo temperamento. Parlo del temperamento dell’opera e non dell’artista, parlo dunque di una possibilità di temperamento talmente evidente, anzi talmente invisibile, da essere palese.  Un temperamento introverso e di fuga, fatto di azioni rituali svuotate di ritualità, oggetti quotidiani svuoti di quotidianità, racconti svuotati di capacità descrittiva. In continuo equilibrio tra spunti narrativi e radici concettuali, la ricerca di Luca Scarabelli, in questi ultimi anni, si sta infatti concentrando attorno a differenti progetti dalla radice comune e compatta, legata all’individuazione di processi di deautorializzazione all’interno del processo creativo, messo in moto dall’artista stesso. 

Luca Scarabelli non cerca però di nascondersi dietro le proprie opere o scomparire all’interno delle dinamiche che le creano, bensì risignificare, cioè dare un differente e alterato valore, all’atto immaginativo e dunque creativo. Questo atto costruttivo, anzi ri – costruttivo, sembra posizionare in modo differente la funzione dell’artista all’interno dell’universo da lui stesso (non) creato. Spettatore della sua stessa opera, Scarabelli si ritaglia un ruolo contraddittorio ed ermetico capace di insistere sulla forza, evocativa e poetica, del frammento, del margine e del vuoto. In una celebre intervista curata da Peter Halley, Wolfgang Tillmans riflette su come la parte più interessante del suo lavoro stia nella tensione tra la promessa di un’immagine perfetta e la realtà di un universo, quello quotidiano, in continuo e impreciso movimento. Ecco credo che l’opera di Scarabelli si situi all’interno dello iato di cui parla Tillmans perchè parte da questo quotidiano svuotandolo poi di tutta la sua contingenza. E’ per questo che fogli di giornale, fazzoletti ricamati, vasi di vetro o vecchi mobili, passati attraverso l’azione dell’artista (spesso un semplice spostamento) ci appaiono malinconici, distanti, enigmatici. E questo baratro di incomunicabilità è fatto sia di segreti che di abbandoni, è il fascino di un’opera che sente il peso nella propria insicurezza che, lo ripeto ancora, non è quella dell’artista, ma quella che si fa specchio di un mondo di possibili significati e dunque di possibili fratture.


2008

Davide Ferri

 

Mostra galleria Cilena, Milano

 

 

Per prima cosa Luca mi dice che Bicycle race on the moon “sarà il racconto di un possibile autoritratto, sfuggente ed enigmatico”. Che ci finiranno dentro, in qualche modo, la passione per il ciclismo e quella che lui invece chiama “la malattia dell’arte”. 

L’arte è per lui una forma di gioco, di lieve e calibrata vertigine. Il ciclismo è anch’esso vertigine, ma, come l’arte del resto, è soprattutto fatica, disciplina ed esercizio quotidiano. “Fatica fisica uguale fatica intellettuale”, dice Scarabelli. Così, via via che la discussione procede, le cose dell’arte e quelle del ciclismo si sovrappongono e si intrecciano in modo armonico e io ho come la sensazione di non riuscire più ad accorgemi a quale delle due lui stia facendo riferimento, come fossero parte di un medesimo ambito di ricerca. C’è un lavoro in un certo senso “marginale” di Duchamp che potrebbe idealmente essere usato come contrappunto a tutta la mostra. Si tratta di un piccolo disegno (Avoir l’apprenti dans soleil, 1914) che raffigura un ciclista in salita, in ascesa verso il sole,  e realizzato sul foglio di un pentagramma musicale. Guardando il disegno si ha come l’impressione che sforzo, equilibrio e vertigine siano tenuti insieme in un unico movimento. Anche tra i lavori che Scarabelli espone in Bicycle race on the moon compare un ciclista concentrato in un’azione in salita. Ma diversamente da quello di Duchamp questo procede nella direzione opposta e cerca di raggiungere la luna.  Sfuggire ai sistemi e alle definizioni appellandosi all’immaginario ma tenendosi ben saldi su tre piedi come nessun essere vivente riuscirebbe a fare. Se è possibile individuare un elemento emblematico in questa mostra di Scarabelli, questo è sicuramente l’immagine del treppiede. Che serva per sostenere un’ipotetica luna bloccata nel suo moto (Interstellar overdrive), o per fissare un grande cerchio colorato da cui pendono alcuni nastri di raso che sfiorano il suolo (Ilinx: la vertigine di Juri) o, ancora, come puntello per l’immagine di una figura in posizione di precaria stabilità (la figura in questione è appunto Pino Pascali nel piccolo collage Esercizio di gravitazione) il treppiede è sempre, inequivocabilmente, la forma perfetta dell’equilibrio a cui raccordare oggetti che se ne stanno come in bilico, rafforzando quel senso di misurata vertigine che collega tutti i lavori in mostra. “La gravità contiene il segreto della leggerezza”, ha scritto Italo Calvino. 

Alcuni dei lavori che Luca Scarabelli ha realizzato in passato sembrano esser nati all’interno di una dimensione puramente ludica, e da una  particolare inclinazione allo svuotamento. È il caso ad esempio di una serie di pastelli  su carta quadrettata (Paesaggio atomico della pittura, 2006) dove l’intento era semplicemente quello di ricoprire per intero la superficie del foglio riempendo ogni quadratino di un colore diverso ed evitando le ripetizioni per quelli adiacenti. Anche il grande disegno ( Blurb) in cui Scarabelli ha trascritto il titolo della mostra pare nascere da un atteggiamento simile. I font che l’artista ha utilizzato sono completamente inventati e non seguono alcun progetto, come anche le scelte nell’accostamento dei colori, dai toni molto accesi.  Così, attraverso un gioco la cui unica regola pare quella di  abbandonarsi ai significanti più che ai significati, emerge in forma di manifesto il paesaggio a cui l’artista sembra alludere (“i film sulle fantasie spaziali, sulle avventure siderali”, e in generale tutto quell’immaginario anni Cinquanta che la corsa allo spazio ha alimentato)  e che, così manipolato, finisce per essere ricondotto a un fatto del tutto  intimo e privato. Stare in surplace (cioè mettersi in equilibrio sulle due ruote della biclicletta senza appoggiare i piedi a terra) significa, per un ciclista esperto, riempire uno spazio d’attesa e di stasi che può durare anche alcuni minuti.  L’autoritratto come ciclista cosmonauta congela questo momento marginale del viaggio (che è come un vuoto, una specie di lacuna nel percorso) sullo sfondo di un paesaggio banalmente urbano e al contempo straniante e lunare. Chissà che non sia lì, in quell’attimo di quiete di una densità percepibile, la cifra segreta di ciò che Scarabelli vuole raccontarci.


2006

Michela Arfiero

Sguardi sull'Eden

 

Mostra galleria Amste, Lissone

 

 

Ed ora, andiamo ancora oltre e prendiamo tutto quello che si e’ già verificato o che può ancora verificarsi, certo non mancano esitazioni o forse contraddizioni, ma questo insieme di riflessioni, di storie e visioni da forma a quello che potremmo chiamare “ un evento”: l’enigma, il non decifrabile dell’esperienza.

Ed e’ proprio in questa sorta di en plein di materiali, mezzi espressivi, ricerche, citazioni, mancanze e suggestioni che s’inserisce il lavoro di Luca Scarabelli, una ricerca che e’ operazione, riflessione e contemporaneamente avventura.

Come l’Ultima mosca sul tavolo (2005), un lavoro composto di più elementi in cerca d’equilibrio, ma in pausa, sospesi in un momento di esitazione. Un tavolo rotondo, sopra una mosca intrappolata in un bicchiere alto 15 centimetri per un diametro di 7, e una sfera di marmo nero sospesa tra il piano del tavolo ed il muro. 

La situazione che Scarabelli congela nella forma estetica non e’ solo la sintesi di una condizione ma e’ soprattutto linguaggio. Il cerchio, la sfera, il vuoto circolare del bicchiere che intrappola  e protegge l’insetto. Un linguaggio articolato e talvolta simbolico che si manifesta attraverso le macchie, i tratti delle matite colorate o lo spazio tra gli alberi. La serie di lavori Giardino preso in prestito (2005) nasce da un concetto orientale, lo shakkei -letteralmente scenario in prestito- un giardino costruito per essere esplorato con la mente,  che incorpora vedute che sono all’esterno del giardino stesso; un luogo che e’ soprattutto paesaggio: non costruito per essere percorso fisicamente ma per essere ammirato da un punto fisso. Giardino preso in prestito mette in scena un giardino incorniciato da se stesso, un luogo bidimensionale formato dal perimetro, dalle sagome degli alberi e dallo spazio bianco. Esaltazione dello spazio intermedio, il vuoto e' vissuto come un percorso che estende gli scenari da esplorare. Le silhuette degli alberi sono ombre, macchie, forme nere; sono alberi piatti e silenziosi che crescono dai bordi diretti verso il centro. Il colore ed il fruscio si trovano nel vuoto che li circonda. Non e’ il mezzo o il materiale che Luca Scarabelli mette in scena ma il veicolo utilizzato per arrivare da un punto ad un punto di vista.


2007

Marco Pierini

Sguardi sull'Eden

Mostra galleria Milly Pozzi, Como

 

 

Scarabelli propone alcune immagini di un bosco le cui inquadrature risultano ruotate di 90° rispetto all’ordinario, in modo che gli alberi appaiano distesi e il terreno che ne trattiene le radici assuma un insensato sviluppo verticale. La visione è inquinata da piccoli cortocircuiti, localizzate alterazioni della percezione dovute a stickers argentati di forma rotonda applicati sulla superficie del dittico fotografico e del poster della serie Floating point. La vicenda sottintesa è quella della tentazione del serpente ma il punto di vista prescelto, sostiene l’artista, non è quello dei protagonisti, bensì quello della mela, dello strumento passivo saldamente incardinato nel fatale meccanismo. Mangiato che ebbero il frutto dell’albero della conoscenza Adamo ed Eva si accorsero della loro nudità, seppero quindi per la prima volta ‘vedere’ e riconoscersi per ciò che erano. Conoscenza, pertanto, come consapevolezza di sé e, al contempo – come suggerisce l’angolazione della mela – visione alterata, distorta, parziale del mondo, immagine da mettere a fuoco e registrare di volta in volta, conformità e misura dello sguardo in relazione alla luce: lampo che denota, abbaglio che inganna.


2007

Martina Corgnati

Eden

Mostra galleria Milly Pozzi, Como

 

...L’Eden è innanzitutto un luogo e Luca Scarabelli ha pensato al luogo, alla foresta come passaggio, confine fra natura e spirito. L’artista tende, talvolta, alla provocazione; detesta che sul suo lavoro si speculi troppo, che gli si facciano troppe domande (l’anno scorso aveva pubblicato su “Juliet” un lungo articolo costituito soltanto dalle domande rivolte a vari soggetti in varie interviste pubblicate su giornali specializzati come “Flash Art” e “Tema Celeste”). Le concettualizzazioni eccessive sono pericolose, annacquano l’intuizione. L’opera invece, secondo Scarabelli, è piuttosto il frutto di un’intuizione che diventa oggetto passando attraverso la fotografia. Perché la fotografia ? perché è lo strumento perfetto per trasformare in immagine un punto di vista e nell’Eden il punto di vista esiste ancora (solo lo sguardo di Dio vi si sottrae). Dunque il punto di vista della tradizione artistica classica sull’Eden è quello frontale. Noi siamo di fronte: davanti a noi accade qualcosa. Dio, per esempio, vi crea l’uomo e la donna, oppure l’uomo e la donna, una volta creati, disobbediscono alle consegne e colgono la mela dell’albero della conoscenza. Spettatori estranei (!) al gioco, vediamo tutto e sappiamo già come va a finire. Scartabelli cambia le carte in tavola. Immagina una sua selva, una foresta di conifere, una fotografia riprodotta diverse volte sempre uguale (l’Eden non cambia, non vive nelle stagioni del tempo, è eterno; per questo, forse, le conifere, che non perdono le foglie). Il punto di vista però, questa volta, non ci concede il nostro comodo disimpegno: è quello della mela, alquanto trascurata come soggetto attivo dell’iconografia. Vedendo le cose così, escludiamo il naturalismo, che ci porterebbe verso divagazioni pittoresche; gli alberi sono ancora riconoscibili ma sono orizzontali – il criterio di interpretazione è un altro, non è il nostro che stiamo in piedi e abbiamo due occhi.  L’immagine cosiffatta è costellata di stickers argentei, brillanti, quasi optical. Le loro combinazioni, diverse per ciascuna immagine, sembrano corrispondere alla configurazione dell’uomo e della donna primordiale. Sono casuali ma alla fine determinano, volenti o nolenti, un paesaggio, un certo modo di essere delle cose. L’occhio è attratto dal luccichio. È la coscienza, che emette qualche segnale, sussulto. Gli occhi ingannano, proviamo a pensare.


2006

Elio Grazioli

mostra Villa Scalabrino, Mozzate

 

 

Dopo aver sparso macchie un po’ ovunque e nei modi più disparati, ora Scarabelli riempie diligentemente quadratini su fogli prestampati senza uscire dai bordi: che succede? Beh, anche fare delle macchie è un esercizio preciso, checché facciano pensare i loro contorni informi. D’altro canto, mentre lascia sdraiata sul pavimento una ragazza con un vestito tutto giallo a segnare un altro tipo di macchia di colore, tanto precisa quanto immobile, contemporaneamente fa girare senza sosta tra gli spettatori una palla di marmo che chiama “fantasma” appunto perché si vede e non si vede, è imprendibile e sfugge alla definizione (tutti giochi di parole, visto che si tratta di una sfera ed è tenuta in mano da ciascuno, e del resto le fotografie che l’artista ne ha tratto ed espone come opera sono l’unico modo di fissare tale circolazione, ma diventano così delle fotografie di fantasmi!). 

Da un lato troviamo segni e modi perfettamente riconoscibili, tanto da farci credere che Scarabelli pensi ancora, quasi tradizionalmente, a colore, disegno, pittura, scultura, ma anche – oggi è per così dire inevitabile – alla fotografia, alla parola e alla performance; dall’altro si vede subito che sono usati in modo strano, tra il giocoso e l’allusivo, spesso alla lettera (una macchia è una macchia, un colore è un colore) ma sempre diversamente. Spesso un medium passa in o attraverso un altro: le macchie di pittura vengono fotografate, oppure l’artista le colora a pastello su un foglio (sono ancora “macchie”?), quando, come abbiamo visto, non sono oggetti o addirittura persone.  A Scarabelli viene da chiamarli “alibi” o “conversazioni”, o di chiamare in causa l’ozio o il perdersi (l’ipermoderna arte di perdersi di benjaminiana ascendenza). Una serie recente si intitola Passi sparsi, e si capisce: sono sfere di calze! (Altro che marmo! Talvolta Scarabelli li unisce proprio per collegarli, creando tuttavia un’altra incongruenza: marmo e lana, che cosa hanno in comune? Il colore, qui, anzi un particolare colore che quasi non neppure lo è, un colore: il nero.) Comunque c’è uno spostamento dal piano tecnico e formale a un altro più mentale – e anche emozionale, come una sorta di straniamento – che scaturisce proprio dal contrasto tra la familiarità degli oggetti e dei procedimenti e il loro rimanere sospesi, straniati e stranianti appunto, enigmatici, metafisici. Molte opere stanno a terra, sul pavimento o appoggiate su piani orizzontali bassi, in modo che il nostro sguardo le scruti dall’alto, come un paesaggio, un giardino, che esso percorre sinestesicamente (“Flâneur ottico, collezionista tattile”, scrive Walter Benjamin, e Paul Virilio da parte sua parla di “aeroscopia”). 

In fondo questo vale anche per le altre opere: il loro straniamento va riempito dallo spettatore, dalla sua “interpretazione”, non un vero e proprio racconto, non un senso compiuto, piuttosto una visione, un pensiero, un’idea. Anche le macchie sono paesaggi e giardini in cui lasciar andare lo sguardo, anche le combinazioni dei quadratini colorati, fatte di geometria ma anche scombinate dalla casualità delle disposizioni, una casualità semplice anch’essa, come un gioco significante (di significanti invece che di significati): unica regola, che mai due quadratini adiacenti siano dello stesso colore (il colore è il materiale dell’attenzione di Scarabelli: ma il nero che prevale nelle opere sferiche recenti non è anche la sua negazione, o la somma, sferica appunto, dei quadratini multicolori? Il colore del disegno, colore che disegna? Un non colore “mentale”?). Giocoso, leggero, malinconico suscitatore di inquietudini sempre nuove, è questo atteggiamento a distinguerlo da quelli a cui solo apparentemente assomiglia, questa semplicità di mezzi espressivi – semplicità della complicazione in realtà, se ci si passa l’ossimoro, ovvero dei passaggi dell’una attraverso l’altra – che, insieme a un’immediatezza delle costruzioni delle immagini, realizza “situazioni nelle quali è inevitabile la condizione del dubbio e dell’inganno”. Reali e assolutamente falsi al tempo stesso – “simulacri”, li si può dire –, i suoi oggetti sono fantasmi che circolano tra le mani di tutti, che aprono possibilità e contemporaneamente urlano qualcosa senza mezzi termini, non un senso, dicevamo, forse un luogo, quello “zero” a cui è arrivato, oppure una condizione d’essere: “Mi sento solo”, ha scritto sul muro di un palazzo storico, deturpandolo con la banalità di una confessione che è anche la verità stessa della creazione, il suo problema essenziale: il rapporto. Scarabelli, quanto a lui, insiste che il senso sia proprio, personale, intimo, che sia discretamente ma non per questo meno precisamente e decisamente legato alla rivendicazione di un agire esistenziale. Come egli dice: “l’arte nella vita come continuo rumore di fondo”. Questo sembra spostare solo le virgole, ma forse cambia tutto.

 


2003

Roberto Limonta

mostra Amste, Lissone

 

 

Per una mostra che si presenta come “Passi sparsi” sarebbe incongruo costruire un quadro ermeneutico forte, un sistema razionalizzante e totalizzante che dia conto di tutto e che di tutte le cose esposte faccia un tutto. Le riflessioni devono cadere con noncuranza e con una certa meditata indolenza, gocce di colore che disegnano con capricciosa arbitrarietà percorsi di idee.

Macule

La cifra stilistica delle immagini e delle installazioni di Luca Scarabelli si ritrova, più che nelle tecniche o nella scelta/realizzazione di manufatti materici, in una sintassi personale di forme, stilemi ricorrenti che attraversano tutti i suoi lavori. In linea con le indicazioni di un’estetica crociana oggi in disarmo, sull’idea ovvero sulla concettualizzazione visuale, si fonda la scaturigine non di un prodotto ma di un’azione estetica, come rinnovata percezione del mondo che spinge la coscienza all’azione (percezione e riflessione) piuttosto che alla semplice ricezione di un manufatto “artistico”; la materialità dell’oggetto non è che la concrezione di una essenza concettuale. Se il mondo dello scienziato è la matematizzazione del sogno umano di potenza e quello del religioso è un reticolo di tracce del divino a lastricare la via della salvezza, quello dell’artista è il mondo come forma significante, come bellezza che parla, come forma pegno di verità, forma visuale della logica, matematica visiva del mondo conosciuto. Non siamo di fronte a nuovi contenuti artistici ma a un modo di vedere nuovo e antico, della cui lezione smarriamo sempre più facilmente la memoria. L’artista scopre le leggi nascoste del mondo: è lui il legislatore dell’universo nel quale preferiamo vivere.

Passi sparsi

Qui la fatica sta tutta nel mantenere viva la polisemia naturale dell’oggetto, operazione non semplice per delle coscienze cresciute nel contesto di una cultura storicamente fondata sull’univocità del senso e sul principio di non contraddizione. Nei Passi sparsi l’oggetto non è una cosa o l’altra, ma una cosa e l’altra, calzino e punto di colore, senza che l’uno escluda l’altro e senza che l’uno rimandi all’altro come significante che nell’additare il proprio significato si defili annullandosi. Non è un gioco reciproco di simboli ma la proposta della compresenza di due orizzonti semantici, di due mondi di cose, il semplice stare insieme nella presenza, l’accettazione dell’equivoco e dell’ambiguità come forme possibili dell’essere. I passi sparsi non vanno letti come segno, perché non sono una metafora del camminare, né una sineddoche per indicare con la parte (la calza che ricopre il piede) il tutto che è l’uomo: sono il cammino percorso, il sudore della fretta, la comodità del piede protetto dalla tomaia, la pesantezza del corpo dopo una lunga giornata, sono insomma la persona stessa e non una strana ed estranea appendice che parla di lei. Al tempo stesso si mostrano come suggestione formale di ombre, colori, forme e tensioni plastiche, intreccio ed arabesco. In questa pienezza simbolica le calze arrotolate sono colore e fatica, punto e cammino, sfera ed embrione formale ma anche fatica, gioia, trepidazione e dolore. E’ la fusione simbiotica e simbolica dei due aspetti che le rende espressive, il loro parlare il linguaggio della forma e il linguaggio della vita, mostrando come l’esistenza segua la stessa grammatica dell’alfabeto delle forme, e come questo linguaggio della forma proprio dalla vita tragga il proprio spessore.

Manifactured limited

Lasciar essere le cose nello spazio aperto e vergine della loro presenza, rinunciare alla tentazione di un intervento manipolatorio per ridurre il proprio gesto creativo al suo minimo denominatore, ovvero una tenue indicazione intenzionale a sottolineare il gesto prodottosi nello spazio, un’immagine evanescente fermata da un’attenzione esteticamente ricettiva e pronta a cogliere l’estetico nel reale, più che a fare, cosmeticamente, del reale qualcosa di estetico. Non la retorica del “tutto è arte” o dell’oggetto artistico che parla da sé, e neppure la rimasticatura stanca del discorso heideggeriano sull’arte come radura dell’essere, a-letheia, disvelamento; bensì la riduzione del gesto estetico alla sua essenza, a quella sensibilità e a quel coraggio della scelta che rimangono prerogative dell’artista anche in un’epoca di performance e body-art. L’arte non imita la natura ma è la natura stessa “sub specie aestheticis”, il mondo colto nella sua verità estetica. Le immagini Manifactured limited indicano, nominano e incorniciano lo spettacolo estetico del reale, scegliendone le manifestazioni marginali, occasionali ed effimere, perché è bazzicando intorno ai margini che si scoprono i contorni delle cose, i limiti come le linee di forza e di sviluppo.

 


2005

Giorgio Vicentini

Intercettazione

 

 

Luca Scarabelli è un artista. Vivace uomo di pensiero, è dotato di un intuito fuori dal comune. Luca attraversa la realtà con la certezza di intercettare una COSA che fa per   lui.   La   scoperta   avverrà spontaneamente, o per strada, o mentre parla con i suoi studenti, o quando bacia la  sua  sposa.   Il  suo  sguardo  allora, inseguirà la misteriosa aura di un oggetto, che alcuno prima di lui aveva notato in quella luce. Nel preciso istante in cui la preda sarà  davanti ai suoi  occhi, ad esempio, un tavolo; il tavolo cesserà di essere ciò che è, per diventare opera della sua  mente.   Luca  adotta  un  processo creativo sensoriale che gli consente di stabilire volta per volta una relazione esclusiva con l’oggetto. Una pallina, un vetro, un gomitolo di lana ... perdono il loro significato primigenio, “muoiono” della banalità per la quale sono stati costruiti, per trasfigurarsi tra le sue mani, in creazioni  di  profonda  e  straniante bellezza. Per una volta e per mille volte la COSA si rinnoverà in un’icona dello stupore, generando un insieme percettivo di grande emotività. Scarabelli ci conduce nel suo universo metafisico, per mostrarci la realtà febbrile ed inquieta nella quale egli vive, ama e lavora. 


2000

Francesco Tedeschi

catalogo mostra Chiostro di Voltorre 

 

 

La riflessione proposta da Luca Scarabelli riguarda la definizione dell'arte e del mondo dell'arte, ma è svolta in maniera pratica e oggettuale, attraverso lavori che insistono sul visivo, pur ponendosi come riflessione critica sul visivo.

Il suo sguardo incrocia così, dal punto di vista procedurale, il rapporto tra fotografia e pittura, o tra oggetto e pittura, mediato dal problema del colore.

Nella mostra pensata per il Chiostro di Voltorre, dove ha occasione di presentare alcune delle realizzazioni che qualificano gli ultimi anni della sua produzione, i nuclei di lavori si raccolgono attorno a due linee, essenzialmente. Da una parte i Paesaggi malati, immagini fotografiche "sbagliate", tratte da archivi personali, nelle quali l'operazione proposta è quella di dare dignità a un'immagine che solitamente giudicheremmo inutile, da scartare. Dall'altra sono i lavori installativi che riguardano la questione della definizione della pittura, ripresa a partire da Fallen Color Field (1996-97), insieme di presine colorate, che stese per terra visualizzano un'idea di "campo di colore" con funzione virtualmente pittorica.

Nel primo caso l'attenzione è portata a qualcosa che viene visto "con la coda dell'occhio", inconsapevolmente; ma non è tanto un problema di percezione quello proposto, quanto di dignità dell'immagine. Abbiamo tante realizzazioni fotografiche, nel panorama dell'arte recente, che vertono sul problema della scarsa definizione, come motivo di recupero di memoria o di critica alla tecnica, e che spesso nascono da un'intenzione principalmente formale.

Luca Scarabelli, a suo modo, accenna all'uso della fotografia come strumento pittorico e concettuale, giocando sulla "s-definizione" dell'autore e sull'autorialità della scelta, riportando a qualità oggettiva tali fotografie, spesso incomprensibili e per questo dotate di una particolare magia. Rispetto a suoi lavori precedenti, permane in esse la volontà di sottolineare qualcosa che sfugge, che sta di lato, che si pone al margine, della visione, della percezione, dell'esistenza. Non importa se si tratti di lavoro sulla fotografia, sull'immagine o sul colore, ma serve annotare quel tanto di nostalgica presenza dell'assente, secondo un programmato distacco dalla fisicità delle cose e secondo quel senso di persistenza del passato che esse richiamano. Sono immagini mosse, fuori fuoco, che subito sembra di poter associare al sogno, al ricordo confuso, ma che possono essere intese per il loro valore di paesaggio imperfetto, fatto di colore e di luce, e che contiene anche altro: il fruscio delle foglie, la velocità di un’automobile, il rumore dello scatto della macchina fotografica.

In modo diverso, proseguendo una consequenzialità che è propria del suo modo di agire, l'altra serie di opere, articolate fra loro in ulteriori nuclei, propongono considerazioni sulla pittura, nate da un confronto con il conflitto esistente al fondo di molta arte recente, tra la persistenzadi un'opera come oggetto e il suo superamento verso l'assolutezza dell'idea. Fino a qualche anno fa nelle sue realizzazioni era prevalente e quasi unicamente presente il colore nero, come segno di negazione o di allontanamento dalla visibilità; ora il colore è portato in evidenza, non solo in termini di visibilità, ma di affinità con la qualità pittorica delle cose, anche attraverso velature monocrome su superfici "povere". Da Fallen color field provengono altre realizzazioni, quali il Fallen Color Field (Green) e i Passi Sparsi, dove alle presine da cucina sono sostituite calze arrotolate - sempre un richiamo a una domestica quotidianità, oltre che metafora del camminare, rispetto alla loro funzione -, che analogamente acquistano senso nel disporsi nell'ambiente come tracce di colore e di moltiplicazione di direzioni. Con Passi Sparsi, Luca Scarabelli vuole riferirsi all’intreccio disordinato di percorsi individuali e di relazione instaurati da un ipotetico disegno tracciato dalle calze disposte a terra, che potenzialmente contengono, nei cammini  passati e futuri, la memoria di esperienze che si intrecciamo sul freddo piano del presente. Un aspetto quello della disseminazione, che è esistenziale – come ubiqua presenza di percorsi personali- e di significato, perché ne deriva la dispersione dell'oggetto e del colore in uno spazio divenuto mentale.

Un'altra recente forma adottata da Scarabelli consiste nella trascrizione pittorica delle stesse presine colorate su semplici fogli di carta a quadretti. Da quelle “presine” posate per terra, che intervenivano sul gioco di parole della "pittura di campi di colore", considerata anche dai concettuali l'ultimo momento di una pittura formalista da loro contestata, sembra che Scarabelli voglia riproporre quale possa essere per lui e oggi il ruolo del colore, e quindi della pittura; decorazione ma anche oggetto, situazione e concetto.

Ritornare a dipingere queste forme elementari, fa pensare che si possa verificare nel lavoro di Scarabelli un nuovo scambio, tra oggetto e rappresentazione-imitazione dell'oggetto. Che cosi egli possa tornare, cioè, a uno dei problemi della pittura di tutti i tempi, quello della mimesis. Il modo in cui Luca fa questo è però venato di quell'ironia che a volte nel suo lavoro non è immediata, anche per quel fondo di malinconico confronto con il mondo dell'arte più celebrato che le sue opere conservano, fatte per far pensare ma anche per il piacere dell'occhio. Il suo in fondo è un "concettuale romantico", che abbisogna di una pagina su cui esprimersi per poter passare a un grado meno oggettivo o oggettuale. Il suo "ritorno alla pittura" si colloca quindi in una revisione solo parziale del suo percorso, anzi è un passaggio logico che trova il suo corrispondente proprio nei "paesaggi malati", con il quali si prende gioco di molta fotografia, realizzandone a sua volta. Luca Scarabelli intende così mettere a fuoco due aspetti del suo lavoro degli ultimi anni, interdipendenti fra di loro, e motivati in primo luogo da un possibile scambio di parti.

 


1998

Riccardo Paracchini

Interessi privati

 

Mi ricordo, Ella mi raccontava del suo disegno. Era il disegno di un cancello. E non era una cosa qualunque. Era il suo disegno. Ed io ero lì in quel momento ad ascoltarla, veder costruire quella favola dalle sue labbra. Perché in quel che fa ci mette sempre un grande impegno. E’ appassionata. Comunque, era il nostro viaggio, ed io ero lì, mentre mi descriveva le linee della meraviglia e della scoperta. C’era il di qui e il di là. Anzi, l’al di là. Perché era il disegno della porta di un cimitero. E se una porta è una linea di confine, figuriamoci quella. Era la realtà, mi sembrava una favola sentirla raccontare. Anche questo è importante.

 

C’è bisogno del niente.

Una linea, una strada, sono una via che va lontana. Lontano. Niente sosta. Solo cammino.

Così sembri, in questi episodi di vita incedenti, annullare ogni sorta di paesaggio.

La carta, il luogo mitico della rappresentazione, è il paesaggio. La superficie, appunto, cancellata. E non è un caso che qualsivoglia linea, ci offra però l’immagine di un paesaggio. Mentale. E non è un caso, è razionale, che la struttura delle linee crei una geometria irrazionale. Caotica. Il paesaggio è malato.

Nel suo gesto temporale, costante, impenitente, senza sosta, per ore e ore ostinatamente lo vedo lì come chi sa: traccia, mappa, solco, una strada dell’esistere.

Sovrapposizioni. Stratificazioni. Le linee compongono la trama di un campo, e l’ordito è il di qua, il di sopra. E quindi, è il succo del mestiere, esiste anche un di sotto e un di là. Queste pitture (forse pittura) non sono un’invenzione. Quindi vorrei riassumere. Vorrei riassumere l’importanza di queste opere. Di quel niente importante. In poche parole. La forza. Punto.